giovedì, maggio 04, 2006

Polvere e pagine strappate - Racconto


Seicento meno duecentocinquanta uguale trecentocinquanta. Trecentocinquanta diviso trenta fa poco meno di dodici euro al giorno. Tirando la cinghia ce la posso fare.

Questo fu il primo pensiero che mi balenò quando misi piede nella casa. Certo avrei dovuto fare attenzione ai controllori sull’autobus, ma se avessi sottratto altri quarantacinque euro di abbonamento mensile me ne sarebbero rimasti qualcosa come trecentocinque, quindi due pasti al giorno con dieci euro.

Il trovare quel lavoro, in uno dei più frequentati cocktail bar della città, sottopagato quanto basta ma sufficientemente sicuro e stabile non aveva prezzo. Il restituirmi la mia dignità di uomo, essere unico, solo ed indissolubile, con la sguardo rivolto all’orizzonte.

Ero fuggito da una città ancora più grande, grande abbastanza da sembrare di non finire mai se non quando tutti vogliono che finisca, quei primi giorni di agosto quando tutti si mettono in viaggio per dove non importa ma andiamo via, la città da cui ero fuggito mille e mille volte con l’unico sorriso che avrei voluto accanto. Stringendo mentre guidavo l’unica mano che mai avrei voluto stringere. La donna che mai e poi mai avrei potuto dimenticare.

Per quante sere volli pensare che lei fosse ancora viva, e cercai di immaginarmela con gli occhi neri e le ciglia lunghe che guardavano il mondo con l’innocenza di un infante, dimentiche di tutto il passato, dimentiche di me, per qualche assurdo incantesimo malvagio, o semplicemente per un gioco sadico del destino. Qualsiasi incantesimo migliore di una lapide gelida in un cimitero, una lapide sulla quale non avere nemmeno il coraggio di piangere, sospirare e gettare improperi al cielo, così per tutti i giorni della mia vita.
Ed io fuori da quel maledetto cancello nero, orario di apertura dalle otto alle diciannove, tutti i giorni compresa la domenica, non c’è vacanza nel regno dei morti.

Quello che era morto in compagnia di lei era l’amore, perché dentro di me non ci sarebbe più stato spazio per sorrisi e commozione, per ammiccamenti e serate in perizoma. Non senza lei, andata via per sempre, salutandomi gentilmente e con quella maledetta bastarda ombra che accompagna chi sta per morire. E che noi vediamo solamente nei nostri ricordi, dopo la scomparsa.

Celebrai il funerale della mia capacità di amare una donna, la cerimonia di addio alle illusioni, l’ultimo saluto di quella città grande grande ma troppo piccola per la mia tristezza.

E mi ritrovai in una città molto più piccola, vuota ma efficace per rimarginare parte delle mie ferite, perlomeno quelle indispensabili per parlare con gli altri, quella città col centro storico troppo caro per poterci vivere, quella città con quei locali così trendy, vecchi e nuovi allo stesso tempo, vivi della storia che si fonde con uno sguardo profondo ed immancabile ad un futuro gravido.

Quella città in cui lei era troppo lontana per esistere, ed io troppo occupato a mangiare due volte al giorno con meno di dodici euro, impomatandomi la sera per poter sembrare l’ultimo di coloro che lavorano solamente per essere al centro, al centro di una movida che centro non ha.

In quella casa vecchia, a quarantacinque talvolta più minuti e due autobus dal mio bancone, dallo shaker, dalla consolle che spara deep house con la sola missione di annebbiare i sensi e liberare le menti nelle sere in cui bisogna, è necessario divertirsi.

Vivevo al primo piano, in mezzo ad orti e nuove case, in una villetta cadente costruita da contadini quando ancora si pensava che la città mai avrebbe potuto avere una periferia, e tanto meno una cintura. Una casetta anomala, piccola, bassa, con un piano terra adibito a grande ripostiglio di oggetti non miei. A magazzino. A pattumiera. Questo è quello che pensavo prima del giorno in cui trovai i libri.

Libri, libri su libri su libri su libri, decine di autori e chilometri di polvere, testimonianze di una vita passata, superata, sfogliata nelle sere d’inverno. Fui tramortito da tanta cultura. Io avevo rinunciato a studiare molto presto, assorbito nella vita di chi proprio una casa non la vuole avere, una casa in cui restare fermo a leggere per ore.

Ora così, senz’altro domandare, mi trovavo ad avere una ricchissima biblioteca, ricca di polvere e di pagine strappate, anche se il giallo della carta mai avrebbe cambiato di una virgola il contenuto di quelle scatole delle magie.
E allora cene saltate per leggere, immerso nell’astrazione degli acari, costruendo il mio linguaggio e la mia mente, serate a lavoro interpretate col disgusto dei maestri della beat generation, annaffiando il tutto con una maledetta voglia di vivere, ed annacquando il mio entusiasmo col ventoso empasse di chi ha sofferto, a cui la morte ha fatto visita in passato per saldare il conto coi sentimenti.

Vedevo lei ad ogni passo, viva sorridente e leggiadra, ma sempre più leggendola al buio della disillusione che solamente Schopenauer può fornire, o con l’ombra adagiata sul cuore a cui una partecipe lettura di Montale non può non condurre, conducendoci per mano sul mar Ligure.

Mi accorsi che il mio misterioso predecessore aveva gusti rivoluzionari, così mi immersi, chiuso il conto quotidiano col bancone, in una consapevole lettura del Capitale e delle opere di Marx commentate, per risvegliarmi poche ore dopo con le poesie di Garcia Lorca e di Rafael Alberti, e passai ore ad immaginarlo in fuga da covo a covo, seminando parole di libertà e di rivoluzione. Riuscii addirittura a sentirmi parte di un movimento, nonché l’anima ed il bibliotecario di una sollevazione prossima ventura, sopra le rovine di un mondo ormai logoro.

E lui, l’inquilino, fuggito in fretta dalla casa, la casa in cui aveva coltivato le sue radici sovversive, la casa nella quale aveva progressivamente tagliato i fili che lo legavano all’autorità, agli altri e a Dio stesso. Poesia, prosa, commedie, saggi politici, guide su guide turistiche. Divisi tutto in pile separate, alternando in mano mia romanzi, sillogi poetiche e saggi, e sentendo in me crescere il coraggio. Coraggio di affrontare la vita con la sfrontatezza di un Rimbaud, con la stravaganza di un Oscar Wilde, proprio io che mi ero sempre atteggiato come colonna portante del dolore, ovviamente dopo la scomparsa di lei.
L’angoscia di essersi aperti all’amore, e trovati vulnerabili alla morte divenne un sogno di una notte di mezz’estate.

Fino a quando non ce la feci più, e con la fortuna che un tardo pomeriggio primaverile sa concedere mi feci dire dalla anziana madre del proprietario chi aveva abitato quella casa in passato. Chi era il cospiratore, l’ultimo uomo libero, il poeta coautore della mia vita. Ed ebbi un nome.
Ebbi un nome, e presto anche un indirizzo. Non si era quindi dato alla macchia, il maestro…

L’ansia di conoscere, di avere una guida. Il sapere con esattezza che noi non siamo nulla, ma un saggio può condurci al di là del conoscibile, in quella terra di nessuno che è la libertà. La pila dei romanzi era sicuramente la più alta, una torre di Babele di fantasia e conoscenza che rasentava il metro e mezzo. Dovetti dividerla in due, e ben presto la mezza pila dei libri letti superò quella delle mie pagine future. La pila delle guide turistiche sì, quella rimaneva le più polverosa.
Una sera impiegai un paio d’ore a rimettere a posto un saggio del pensiero di Sant’Agostino. Gli feci ritrovare un ordine. Con del nastro adesivo riacquistò una vita propria, ed io la succhiai goccia dopo goccia.

Leggere tanto ti cambia. Ti catapulta nella vita reale in maniera prosaica, finché tutto diviene l’episodio di un racconto. Il litigio di due fidanzati al pub, la rissa tra spacciatori nell’angolo di una piazza settecentesca. Un soggetto strano che parla ad alta voce da solo sul bus. La mia storia, la storia della mia perdita divenne il pezzo clou di un libro di memorie. Le luci della città furono un affresco su di una guida turistica, o la descrizione subitanea di un prigioniero in esilio. Il tutto raccontato per incisi, soffermandosi su particolari, lettere nere su di un foglio immacolato. Enfatizzato, perché la realtà va a braccetto con la noia. L’estensione del mio battito cardiaco.

Fino al paragrafo in cui la storia svelò i suoi connotati, pioveva ed io mi trovai solo dinanzi al cancello nero di una villetta. Decisi di non entrare, ma nulla mi impedì di spiare tra le siepi. Il mio maestro era lì, come la scena di un telefilm che non c’entra nulla con la vita, in cui il buon padre di famiglia spinge uno dei suoi due bambini sull’altalena, poi si volta, risponde al cellulare, contratta animosamente e prende un foglio dalla sua Mercedes nera. Non c’era più nulla della letteratura socialista, dei romanzi beat, della rivoluzione imminente e consapevole. Solamente polvere, polvere nelle mie mani.

Fu un dramma. Non avere un maestro è un dramma. Non avere più con me il maestro. Solo, nuovamente solo, in una vecchia casa. L’ultimo atto di una tragedia. Prima di capire che in realtà un maestro altro non è che la materializzazione del fantasma di colui che ha vinto le nostre paure. E quando ci si ritrova di fronte alla morte, allora si sta rinunciando a tutto, quindi tra il farla finita ed il ricominciare non v’è differenza alcuna. Ed anche se il mio mentore era un dirigente di banca, in realtà io rappresentavo la libertà, il non avere nulla e il non attendersi nulla, nonché l’assecondare chi mi parlava con trasporto di ciò da cui non avrebbe mai potuto prescindere. Giunsi a pensare che ognuno adorava le sue catene ed io, accidentalmente senza guinzaglio, fungevo da involontario baluardo dell’isola senza autorità.

Portavo con me metri e metri di libri, polvere e pagine giallognole in grado di far detonare sezioni cerebrali assopite da drogaggi lenti ed inesorabili opera della quotidiana sopravvivenza, e smisi di fuggire. Shakeravo cocktail sotto luci patinate, intense ed estemporaneamente vuote, fino a quando un fuoco fatuo mi urlò addosso, e fu un morso che spremette lo stomaco e lacerò l’intestino, una frattura nel centro nevralgico del mio cuore.

Lei non era morta, ma il suo era stato un tragico atto di scelta: lei aveva abbandonato me ad un destino bizzarro, sputando dietro di sé, nell’unica direzione in cui potevo seguirla, un fiume ghiacciato, costituito da un’impercorribile indifferenza, lasciandomi nudo, nel cuore e nell’animo, esposto alle intemperie angosciose del mondo. Per correre lontano con un altro uomo. Ed io, solo, non potei altro che pensare lei, morta, nella terra che l’avrebbe consumata, lentamente e senza pausa alcuna, nei secoli e nei millenni.

Ma quel giorno splendeva un nuovo sole, per quanto composto di luci chimiche e di musica assordante, con un nucleo vivo di pagine e pagine di storie, riflessioni, deduzioni, impilate nella mia cantina e nel mio lobo temporale. Per darmi una vita vera, ben lucidata, trasparente. Come gli occhi di colei che stavano incrociando i miei, a pochi metri, quando protetto dal bancone lasciai che il presente ed un improbabile futuro mi illuminassero e riuscissero a saziarmi.