mercoledì, novembre 23, 2005

Cinque stelle. 3.Un mondo sospeso (1)


“Non si può vivere in un castello sospeso sul mare”

Laurent, ma dove cazzo sei?
Non rispondi alle mail da mo’…

Ore 15:05. L’agente.

Ore 15:45. Il consiglio di amministrazione.

Ore 17:00 Briefing portafoglio azioni.

Ore 18:00 I miei fratelli.

-Laurent, non riesco a rintracciarlo. Tutto sembra andare per il meglio. Siamo marci. Milioni di debiti. Stasera cena con faccendiere Futura ETMS per spostare fondi alla fiduciaria brasiliana. Tutto tranquillo. Seppellisci l’associazione dei consumatori e la sua protesta. Il presidente è stato indagato per corruzione tre anni fa. Il processo è ancora pendente. Non sarà difficile.
Ho la sensazione che qualcosa si stia muovendo, non so cosa. Il direttore ha la massima fiducia in me.
La fine è vicina, e lui non lo sospetta nemmeno. Mancano ancora molti tasselli, ma l’intelaiatura è completa-

Vivo in un mondo di cristallo. Il mio ufficio è di cristallo, acciaio e cristallo. La mia vita è di cristallo. La mia mente va a pieni giri. Deve farlo sempre. La missione illumina la mia vita. Non mi concede riposo. Ma manca ancora il detonatore. Prendo l’ascensore per un caffè col vicepresidente idiota ciccione. Che mi parlerà della riunione di ieri sera, strizzando l’occhio alla ragazza della portineria. L’ultima vittima di un feroce sesso anale.
Vedere oltre le righe. Oltre i piani dell’ascensore. Oltre ai suoi sorrisi di convenienza. C’è chi fa di tutto per apparire, io faccio di tutto per nascondermi. Ventunesimo piano.

Un tizio abita al ventesimo piano. Al mattino, esce di casa, chiama l'ascensore al suo piano, scende al piano terra e va a lavoro. La sera, quando torna, chiama l'ascensore dal piano terra, diciannovesimo piano, poi sale un piano a piedi. Ogni giorno. Non lo fa di proposito, in quanto preferirebbe arrivare direttamente al ventesimo, e l'ascensore funziona perfettamente. Perché lo fa?

Arriva la sera. Oggi non mi sono divertito. Vivere da attore non diverte, fingere, e fingere la finzione. E fingere che la finzione ti importi. Fingere di mandare avanti le trame con società off-shore, creare e manipolare denaro.

Quando non ho cene di lavoro, come stasera, sono un uomo fortunato. Nessuno che mi conosce sa dove vivo. Nessuno. E chi sa dove vivo non sa chi sono, che posizione occupo. E’ la regola numero uno per restare nell’ombra.

Ho un’altra identità. Un'altra vita. Altri vestiti. Altri trucchi. Altri atteggiamenti. Fingere di essere diverso da chi sei. Essere diverso da chi fingi di essere. Non essere.
Se voglio conoscenze estemporanee, oppure una donna per fare del sesso, esco, infilo jeans da dieci euro, un giubbotto sgualcito e vado a distruggermi. Sono un mago nei trasformismi. Non temo di incontrare qualcuno. Non temo nessuno. La mia vita è la mia missione. La mia casa due stanze con bagno in un centro città grigio e sempre inquinato.
In casa spendo la maggior parte del tempo in meditazione per evitare di non esagerare con la cocaina.

domenica, novembre 20, 2005

Cinque stelle -2 - I campi di lavanda (2)


Anni fa. Una vacanza per giovani rampolli con tutti i voti massimi ottenibili dalla cazzo di vita a diciassette anni.
-Sapete, ragazzi. Voi potrete avere tutto dalla vita. Ma questo non vorrà dire nulla. Non starete facendo nulla, in realtà, quando starete seduti sulle vostre auto fiammanti decappottabili, vicino alle giovani modelle che scarrozzerete in giro in cambio di sesso o finto amore. Quando passerete le ore al telefono o in videoconferenza pensando a quali azioni vendere, a quanti dipendenti licenziare, a come fare a diventare ancora più ricchi. Non starete facendo nulla.
Non farete nulla fino a quando non striscerete la vostra faccia nel fango, quando non avrete più nulla da perdere. Quando non avrete più paura a rischiare la vostra vita senza ragione. Quando vi butterete da un precipizio per il solo gusto di farlo. Quando schiaffeggerete il ministro dell’economia. Quando la gente vi seguirà non per i vostri soldi, ma per il vostro carisma. Perché voi sarete delle guide. Dei profeti. Quando non avrete più problemi ad essere ultimi-

Ancora. Illuminami.

-Solo dall’ultima posizione si riescono a vedere tutti gli altri-
O fingendo di essere gli ultimi.

Tre turisti sono catturati dai selvaggi e condannati a morte. Hanno però una possibilità di salvarsi. Vengono messi in fila indiana e a ciascuno vengono tinti i capelli di bianco o di nero. Tre tinte di bianco e due di nero. Così l’ultimo della fila vede i capelli dei primi due, quello in mezzo vede solo i capelli di quello davanti ed il primo non vede niente. Nessuno vede il colore dei propri, ovviamente. Viene chiesto all’ultimo della fila di indovinare il colore dei suoi capelli; lui risponde -non lo so- e viene ammazzato.Tocca a quello in mezzo che, sentita la risposta del suo compagno, risponde anche lui -non lo so- e anche lui viene giustiziato.Tocca poi al primo della fila che, sentite le risposte dei compagni, risponde con sicurezza. E non sbaglia. Resterà vivo. Di che colore avevano i capelli i tre?

Ancora.

-Dovete imparare a vivere. Ottenere il massimo da voi stessi non significa ottenere i massimi riconoscimenti dalla società, dagli altri, avere i voti più alti, ritrovandovi a quarant’anni obesi ed arroganti. Viziati ed impossibilitati a vivere senza l’idromassaggio giornaliero. La strada per essere impossibilitati a vivere senza un bypass coronarico-

Ancora.
-Fumate questo-

La prima canna. Non fa niente.
Fa, fa, aspira a fondo. Toni, com’è fumare?

La prima cima alpina.
-Ragazzi, certe cose non si possono acquistare, nemmeno nei più cari negozi del centro-
La nebbia, il sole sopra le nubi, la fame da svenire, dormire all’addiaccio, al freddo senza chiudere occhio. La paura un po’ naif di non passare la notte.

La voglia di vivere. L’ennesimo pastis. La prima volta che esco con una ragazza. La prima volta che nessuno mi dice di non fare tardi. La prima volta.

Rubare uno snack al supermercato, venire scoperti, pagarlo ed implorare di essere perdonati. Che non lo si rifarà mai più.

Implorare Serge per un altro pastis, dai, te lo pago domani. Tanto i miei sono ricchi.
Implorare Serge per un altro pastis. Con i miei non voglio avere più nulla a che fare. Domani lavo i piatti per pagartelo.

La cosa che più amo del buddismo zen è che non ti vieta nulla. Che non ti dice di fare nulla. Che non ti dice un cazzo. Ma al tempo stesso, tu sai tutto ciò che significa.
Se tu scegli di torturarti con lo yoga, cazzi tuoi. Se vuoi diventare vegetariano, cazzacci tuoi.

-Mappo, caro mio, vieni, lascia che ti offra qualcosa su da me-

In realtà non è nemmeno così vecchio, so che lo ama fare per rimanere meglio nascosto tra l’indifferenza generale. Chi caga un vecchio dormiglione ubriacone puzzolente vestito male? L’ombra.
Ancora.

-Rimanere nascosti nell’ombra, ragazzi, è fondamentale se si vuole riuscire in qualcosa. Quando si esce alla ribalta, si diventa immagini. Icone. Ci si spersonalizza. Lo si può fare solamente se si ha una via d’uscita sicura. La porta sul retro-

Il ladro più bravo è quello che non verrà mai scoperto. Il complotto più efficace non verrà mai smascherato. Il leader migliore è quello che nessuno conosce, ma comanda e dirige tutto. Con il suo nome, la sua autorità, la paura che incute. Da quando in qua la superficie ha potere nel mondo? I movimenti più importanti avvengono nel profondo.

Salgo a casa di Laurent. Non è cambiato nulla. Cominciamo a bere, e parlare.

mercoledì, novembre 16, 2005

Cinque stelle. 2. I campi di lavanda (1)


“Basta uno sguardo per far scattare una rivoluzione”

Il vecchio stava lì, immobile sulla sua veranda. Accarezzava l’edera con la testa reclinata a raccogliere i suoi respiri addormentati. Non mi vide arrivare. Russava. Avevo quasi finito i soldi. Stavo fumando come un turco, quello era l’effetto del mio rientro nel mondo della vecchia Europa.

Tutti uguali quei paesini francesi. Tutti magnifici. Evocano una pace differente dalla buona vecchia Himalaya . Una quiete che non ti scava dentro, ma ti lascia spaziare, con gli occhi buttati tra i campi di lavanda. Il sole pensa al resto.
Una cosa che ho imparato è che è possibile dormire in ogni situazione. Ci sono più modi per farlo. Uno è avere molto sonno.
Il secondo è riuscire a far tacere i pensieri insistenti. Allora ci si addormenta senza problemi.
Per terra, sulle pietre, seduti, sdraiati. Tutto il resto sono sciocchezze. Sono le paranoie che non fanno dormire. La paura che non siano risolvibili.
Passare anni in giro ti fa perdere il significato stesso di paranoia. Bere, mangiare, dormire.
Guardare il sole tramontare. Morire di gioia per avere capito di avere fatto la cosa giusta. Avere quella benedetta sensazione. Forse poi si è davvero pronti a cambiare il mondo. Ma non se ne ha più voglia.

Chi sostiene che dormire è tempo perso è gente che non dà valore ai sogni.

Il vecchio era buttato sotto un muro coperto dal verde rampicante. Faceva parte di un dipinto. Avrei voluto essere miope per vedere per un attimo la realtà come una tela impressionista. Macchie di colore. Macchie di edera. Macchie del vecchio che aveva cambiato la nostra vita.
Pensai di svegliarlo. Ma sarei stato un assassino dell’arte. L’arte viva. Quel dettaglio che sa cogliere solo chi osserva. E il diavolo si nasconde nei dettagli.
Il più bel dipinto è ogni giorno sotto i nostri occhi. La più bella fotografia è in ogni attimo nei nostri occhi, come un vecchio vicino ad una fontana addormentato, davanti ad un muro di edere. In più dove si trova una fotografia che odori di lavanda?..

Optai per una birra ed una sigaretta. Nel bar fumavano due ragazzine. Avevo noleggiato una vecchia Renault furgonata. Blu, scassata. Come doveva essere. Vendevano anche i giornali nel bar, ma non ne volevo sapere. Volevo informazioni di prima mano. Su Toni, su Lele, sugli altri.

Un’altra sigaretta. Un’altra birra.
Passò un’ora. Quando si impara a smettere di pensare, il tempo corre veloce. In India è normale. Immergersi in lunghe meditazioni, meglio sotto effetto di qualche pianta. La trance è lì a portata di mano, è difficile immaginare quanto sia vicina a noi, e quanto la realtà possa mutare di conseguenza. Solo che non è facile nella buona vecchia Europa. E’ tempo perso. A chi conviene? Può essere incredibilmente di moda, meglio in città però. E senza masticare radici, mi raccomando..
Se uno è sufficientemente forte l’assumere droghe non serve a nulla. Anzi, fa male.
Palle.
E’ già difficile sedersi in mezzo loto senza sentirsi idioti, dopo una giornata di lavoro, figuriamoci come fare ad essere sufficientemente forti. In quanto al male, posso solo mettermi a ridere.

Distolsi lo sguardo dai campi di lavanda ed era dietro di me. Laurent. Lorenzo. Il vecchio.

-Ciao, vecchio-
-Mappo, c’est incroyable-
-Avresti dubitato?-
-Certe volte la speranza va scomparendo, specialmente nelle persone anziane, sai…-

Il vecchio che ci aveva rovinato la vita. Aperto gli occhi. Dato una nuova speranza.

mercoledì, ottobre 26, 2005

Cinque stelle - 1. Il ritorno di Mappo (2)


Mi vennero in mente le onde del mare, infaticabili, i porticcioli delle Cinque Terre, il colore del tramonto sul soffitto increspato dell’acqua. L’odore della salsedine.

-Mah.. scusa se mi permetto, e cosa hai fatto per otto anni in India?-
-Non molto a dire la verità. Ho girato, ho studiato nei monasteri. Ho preso tempo per riflettere-
-E come hai fatto a sopravvivere, cioè sai otto anni sono lunghi, non hai dovuto lavorare un po’?-
-Basta poco, laggiù. Non ti immagini quanto poco basti per sopravvivere. Non voglio assolutamente criticare nulla, ma con il prezzo di un giorno in un hotel a cinque stelle sopravvivono dieci monaci per un mese. E non sopravvivono, vivono..-

Gli occhi della bionda trasudavano stupore. Avevo scosso le fondamenta del suo pensiero. Era seduta accanto ad un altro mondo, e non le pareva nemmeno troppo lontano.
-Pensi di tornarci? Di tornare in India?-
Era loquace. Bella e loquace. Mancava poco all’atterraggio. Era un tardo pomeriggio pieno di sole e di voglia di vivere.
-No, non penso. Dio, non posso saperlo, ora. Ma tenterò di stare in Italia. Non so cosa mi attenda. Devo incontrare alcuni amici, poi vedrò-

L’annuncio tuonò di allacciare le cinture. La scollatura le cinse il seno, che cercò la libertà in ogni direzione possibile.

Mappo stava tornando in Italia.

-Tu dove vivi in Italia?- Avvicino le due sfere della conversazione.

Forse la gente ignora quanto uno sguardo sia uno scambio intenso tra due persone. Guardare negli occhi ti può buttare nei recessi più intimi di una persona. Ti può catapultare laddove nascono i pensieri e le parole. Ti possono far capire le sensazioni che prova chi ti osserva. Se mente. Se ha paura di te. Se ti ama. Se prova fastidio. Se ha voglia di andare via. Se sta pensando ad altro. Non sono lo specchio dell’anima. Sono la radice del nostro schema interpretativo verso il mondo. La nostra mitragliatrice. Il nostro giubbotto antiproiettile.

-Io? Vivo a Milano? Città carissima, caos, ma non mi ci trovo male. Ormai mi ci sono abituata. Troverai molte cose cambiate in Italia, dopo otto anni. La situazione economica non è rosea, ci sono molti problemi in più. Guarda, un vero casino-
-Dai, noi italiani abbiamo sempre avuto il vizio di lamentarci-
- E’ vero, ma la mia impressione è che ora veramente qualcosa sia cambiato. La povertà esiste, ed è sempre più davanti ai nostri occhi. Anche quella nascosta, quella che ci fa scegliere solo i prodotti più economici al supermercato-
-Avrò il tempo di vedere tutto di persona, spero-
Lo sguardo di Ilaria era perso nel vuoto, tra il suo mondo interiore e le mani di Mappo, che gesticolavano con calma. Gli occhi sgranati coprivano i metri davanti a lei, saltavano giù dall’aereo e tornavano in India, quell’India che lei non aveva potuto visitare, persa in un mondo parallelo di hotel a cinque stelle.
-Ma ti piace il tuo lavoro, Ilaria? Non ti stanca?-
-Mi piace, mi piace molto. Posso viaggiare, avere un ruolo di responsabilità, che comunque mi sono sudata. Poi sì, in certi ambienti in effetti c’è troppa formalità, e questo mi stufa. Non penso però di essere cambiata, sono sempre io, diretta semplice capisci? Certo a te suona strano, non mi hai mai conosciuta prima, però ne sono convinta. Solo bisogna adattarsi per lavorare, cambiare almeno la facciata di noi stessi. Non si può cambiare il resto, quindi bisogna fingere di cambiare noi..-
-Già, non si può cambiare il resto…- Mappo sorrise con disillusione, con un occhio fuori dal finestrino.
-Poi adesso, si sta spostando tutto quanto verso l’Oriente, tocca viaggiare per lavorare. Là la manodopera costa meno, tutto costa meno-
-Ma non ti fa pensare questo? Ho visto ragazzini lavorare in scantinati sporchi di Delhi, convinti che la vita sia quella e solo quella, con gli occhi intasati di sofferenza e di stanchezza. Per una miseria..-
-Lo so lo so è uno schifo.. Ma è un qualcosa di più grande di noi, che cosa si può fare. Anche noi, per quanto fortunati, siamo ingranaggi-

L’aereo atterrò con calma. Le tette della bionda oscillarono come budini. Lei per un attimo pensò a bambini vestiti di stracci che lavoravano sporchi in una stanzaccia di Delhi. Si scambiarono le rispettive email.
Mappo vedeva il congegno dinanzi ai suoi occhi, con i pezzi che schiacciavano e quelli che venivano schiacciati. Una regola fondamentale riguardo a due materiali che sfregano, o due ingranaggi che scorrono uno sull’altro è che non devono essere fatti dello stesso materiale. Uno dei due deve essere più debole. E se ne faranno tanti pezzi di ricambio.

Pensò ad una coda. Non la coda di un animale, ma una luna coda d’auto. Non si forma perché uno è particolarmente lento. Quando era piccino ed era in macchina con i suoi genitori nel bel mezzo di una coda finiva puntualmente per arrabbiarsi con un fantomatico signore grasso e pidocchioso e con gli occhiali, che rallentava tutti gli altri.In realtà però tutti contribuiscono a formare una coda, chi più chi meno. Non c’è nessuno da accusare in particolare, ma il problema c’è. Sussiste.

venerdì, ottobre 14, 2005

Comunicazione di servizio

"Cinque stelle" non verrà pubblicato ad estratti, ma completamente..
se mai arriverò alla fine
p.

Cinque stelle - Il ritorno di Mappo (1)


“Non c’è strada che abbiamo già percorso.
Non c’è strada che percorreremo.”

Mappo non si sarebbe mai aspettato di giungere a provare nostalgia per l’Italia. Più vi si avvicinava, più sussultava d’emozione. Si sarebbe buttato in quelle fantastiche acque di casa, direttamente dall’oblò, sennonché già immaginava che tutto sarebbe cambiato appena avesse messo l’alluce destro sul suolo tricolore.
Aveva voglia di vomitare. La barba lunga. I capelli lunghi e sporchi. In India poteva essere un qualsiasi poveraccio hippy ma non nella finta ricca Italia.
La biondona lo osservava.
L’hostess brunetta con le tette a punta gli sorrise e gli offrì un succo d’arancia.

Il termine Mappo in cinese veniva usato nel Medioevo in Oriente per indicare un’epoca prossima di degenerazione spirituale che sarebbe seguita al periodo di massima fioritura del buddismo.
In Italiano stava solamente ad indicare la degenerazione mentale dei suoi genitori davanti all’impiegato dell’anagrafe.

Aveva voglia di una sigaretta. Tra la biondona e la hostess si sentiva al centro di un harem immaginario. Dopo otto anni a girare per monasteri e baraccopoli era il meglio che gli potesse capitare ora. Respirò. L’aria era elettrica.

-Signore mi scusi, ancora del succo d’arancia?-
-Mmm.. ah beh, sì grazie-
-Di nulla-
Bel culo.
-Where do you come from?-
-Delhi, Delhi. But I’m Italian-
-Ah, sei italiana- Dopo aver aperto bocca con la hostess si sentiva di nuovo di avere rispolverato l’ugola e trovato la voce per agganciare la biondona in tailleur,
-Sì, anche tu? Non l’avrei detto-
-Veramente?- (E per chi cavolo mi hai preso?)
-Mah, a vederti così mi saresti sembrato un indiano, una specie di yogi-
-Ma dai.. a dire la verità mi sarebbe anche piaciuto diventarlo, diciamo un qualcosa tipo un monaco, con un’accezione un po’ generale, ma sono solo un viaggiatore-
-Sì, hai uno sguardo molto introspettivo, non tipico degli italiani. Quindi hai fatto un gran bel viaggio, fortunato tu..-
-Sì, chiamiamola vacanza, meglio rilassamento forse, ricerca spirituale, sai ci sono tanti nomi. Comunque è un piacere conoscerti, io mi chiamo Mappo-
-Sì scusa, io invece sono Ilaria. Beato te, una vacanza, io ci sono stata ben tre mesi, in India, ma per lavoro.. Sai, con questa maledetta espansione del mercato verso est, India, Cina, tocca muoversi parecchio-
Mappo guardò nel vuoto, forse a richiamare in sé vecchie immagini, oriente, economia, Gino. L’Italia si avvicinava, sotto le nuvole. Il paese dell’arte, della pizza e del nepotismo.
-Ma, e tu? Quanto sei stato in India? Cosa hai visitato?-
-Sai, a dire il vero chiamarla vacanza non è proprio corretto. E’ stata più una fuga, direi.. Va beh, otto anni, otto anni sono stato in giro-
-Otto anni! Pazzesco! Quindi non sai più nulla dell’Italia! Praticamente sei indiano!-
-Guarda ho pensato di esserlo diventato, ma come vedi ora sto tornando a casa. In Italia. Ma dai, piuttosto, dimmi di te. Piaciuta l’India ho hai solo lavorato?-
-Eh, purtroppo ho visto solo Delhi, tra uffici, grattacieli ed alberghi cinque stelle. Dodici ore di lavoro al giorno, conoscendo solo colleghi indiani o americani. Un po’ di yoga comunque l’ho imparato. C’era una bella palestra nell’hotel in cui stavo-

mercoledì, ottobre 05, 2005

Da la sera prima (dal capitolo 2 - Al bowling)


Ho sempre provato una certa simpatia per il Ninio, quel ragazzetto biondo più giovane di me, smarrito tra le strade del disagio giovanile o come cavolo lo si voglia chiamare. Sì, lui sarebbe l’emblema, il testimonial perfetto di una ideale pubblicità progresso sui problemi dei giovani. Da piccoli giocavamo assieme a calcetto nel campo dell’oratorio, e lui era proprio bravino. Segnava sempre, ed io gli porgevo sorridente degli assist da favola. Gli avevo pure lavato la schiena dal sangue e dalla ghiaia tatuata sottopelle, un giorno che Gianni la Belva gli aveva fatto un fallo da espulsione e da reclusione nel peggiore dei manicomi criminali dell’Honduras, lasciandolo tumefatto e sanguinante sul dissestato terreno del campetto dell’oratorio di Piusa.
Poi, quando ha cominciato a sbandare, io non gli ho mai negato un sorriso od una birra, con la speranza che un giorno si sarebbe potuto mettere in riga, magari grazie al mio aiuto.
Ma ora ero incazzato con lui. Io non sbando mai.

Andai a casa sua, o perlomeno alla villetta dei suoi genitori. Mi aprì la Ninia, sua sorella, la tipa più eccentrica del paese, più grande di lui di diversi anni, rasata a zero, che insegna training autogeno in mezza Italia e fuma tabacco nazionale “forte”. Quand’è a casa aiuta i genitori a gestire il loro allevamento di criceti da compagnia, e sostiene di conoscere il Buddha di persona.
Le chiesi dove avrei potuto trovare il suo fratellino. Incrociò gli occhi, consultando qualche oscuro oracolo, e rispose –Non so, mi dispiace, ma se vuoi ti do il suo numero di telefono-
Trovare al telefono il Ninio fu come sparare a caso in un lago cercando di centrare un pesce. Infatti non ce la feci. Ma come in tutte le cose, prima bisogna avere la volontà, poi il destino si contorce in modo da presentarti al volo l’occasione che cerchi.

lunedì, settembre 19, 2005

Da "La sera prima" (1.La sera dopo)


...
Mi capita spesso col mio lavoro di riflettere sul dolore che provano gli alberi. Li taglio, li toso, talvolta mi tocca pure ammazzarli. Ma mi fa più paura il dolore degli uomini, e quello degli animali. Forse per affinità di specie. Difatti sono vegetariano, non riesco a mangiare delle bestie che devono avere urlato, sofferto, o che sono cresciute solo per essere mangiate da noi, ma che vita è? Per riempirmi la pancia di proteine animali indigeribili e cagare marcio e a fatica. Preferisco i vegetali. Ho sempre avuto problemi di stitichezza, ma non più da quando ne mangio a quintalate. Di verdura.

Marcuzzo è una testa di minchia, ma la testa di minchia a cui sono più affezionato; siamo cresciuti assieme, ma dopo le superiori io ho mollato tutto per scappare sulle piante mentre lui si è laureato, sposato con una stronza, divorziato dalla stronza, cambiato di lavoro e di abito più di una volta fino a quando si è ritrovato a guadagnare fior di dollaroni gestendo un agriturismo, assaggiando vino e dicendo stronzate sull'aroma che ricorda l'orchidea degli Urali, nonché infilzando la gente secondo pratiche sadomaso cinesi del tremila avanti Cristo. Certa gente ha proprio culo. Beh, forse con le donne lui non ne ha mai avuto molto.

Troppo buono. Troppo buono con l’altro sesso, quindi destinato a soffrire. Affascinante sì, e quasi onnisciente -tanto da essere soprannominato “mister Sotutto” da noi suoi amici-, ma ingenuo con le creature femminili, una carta moschicida per le stronze. Un matrimonio e cinque o sei storie lunghe fallite, ma tutto il resto del mondo nel palmo della mano. E’ una di quelle persone che non guardano la realtà dall’esterno, il tempo scorrere, ma ne cambiano il flusso, riuscendo a fare quello che desiderano.
Io e lui, Marcuzzo e Luca, amici da una vita, amici per la vita. Potremmo tenere un diario l’uno dell’altro, con annotate su tutte le bevute, le feste, le donne, i deliri mistici, le soddisfazioni esistenziali.
Io che parlo con gli alberi, lui con le stangone da televisione che vanno da lui a farsi pungere la schiena alla ricerca della forma perfetta, della chiappa più soda, del calciatore più pieno di soldi.

Mi infuriai con lui, la sera dopo il mio delirio. Con lui e con tutti gli altri, Gianni, Onesto, Nespola, la Diva, i soliti del sabato sera. Bisogna immolarsi in qualche modo, il sabato sera. Immolare la nostra giovinezza al divertimento. Ma sacrificare così un amico, e farlo risvegliare sul bordo di una strada provinciale –cazzo all’inizio non capivo nemmeno quale strada fosse, mi sentivo in un incubo- derubato di tutto, pure della sua identità, già vacillante peraltro.. Stavolta avevano esagerato.
...

paolo

venerdì, settembre 16, 2005

Racconto - La quiete e l'amore


Un giorno chiamai Sandro, il mio amico più caro. -Sai- gli dissi. -Forse mi piace Barbara-.
Nel giro di due settimane lasciai fidanzata e lavoro, e mi ritrovai su di un autobus stracarico da Delhi per Dharamsala, ai piedi della catena dell'Himalaya, in mezzo a trekker, pellegrini buddisti, volontari ed alpinisti.

Barbara era sempre stata la mia migliore amica, sin dai tempi delle scuole medie. Avevo passato anni ed anni con lei al mio fianco, sempre pronta a raccogliere le mie confidenze, ed io le sue. Anche l'università non ci aveva allontanati, pur avendo compiuto due scelte differenti non ci eravamo mai persi di vista, addirittura per un periodo avevamo condiviso un bilocale, studiando nella stessa città. Ricordo le mille cene assieme, parlando di storie d'amore, di filosofia, di politica ed attualità, tra bicchieri di vino rosso e reminescenze del passato.

Il sole che inondava la mia stanza al mattino, io che mi alzavo e facevo yoga, la porta della sua stanza da cui usciva lei, sonnecchiante, che metteva a scaldare l'acqua per il the, guardandomi come per dire -ma chi te lo fa fare di autoinfliggermi tanta sofferenza-. Non capiva che quella per me non era sofferenza, ma una sorta di purificazione dai demoni interiori che mi perseguitavano, e l'unica possibile. E che solo ora forse mi permettevano di riconoscere la verità. Già, perché l'amore non è solamente folgorazione, vortice di passioni, poi litigi e sofferenza, ma è anche l'avere una ragazza vicina a te così, anni ed anni, come amica più cara, vederla in tutina con gli occhi addormentati che ti sorride tutte le mattine appena alzata prima di andare in università, ascoltarla mentre ti esprime, se è il caso, una forte e sincera disapprovazione verso ciò che fai, averla accanto che ti sorregge la testa mentre sei ubriaco, oppure che ti cerca anche solo così, per parlare di qualche stupidaggine che le è accaduta, perché il tuo parere per lei è importante. Fino a capire che quello si chiama amore, e comprenderne la straordinaria forza solo quando quella ragazza non c'è più, è andata via, e nessuno sa quando tornerà, e se tornerà.

Il mio fidanzamento, il mio lavoro come recruiter, e la mia vita sempre alla ricerca di qualcosa di intimo e spirituale, mai riuscito a focalizzare, scavando avidamente dentro di me nel mio poco tempo libero. E Barbara, con la quale trovarmi ogni tanto per esprimerle il mio disagio, per sentirmi dire, con la sua purezza quasi puerile -ma se la tua vita non ti va, perché non cambi? Comincia dalle cose che terresti-. Avrei tenuto lo yoga, ed avrei tenuto lei, sempre al mio fianco, anche se distante chilometri e chilometri.

Poi quel giorno, in riva al fiume -Sai, ho preso una decisione. Partirò per l'India, voglio fare un'esperienza nuova, per la vita. Lavorerò in una ONG per almeno due anni, dovrei partire per Dharamsala tra un mese circa. Sai, Dharamsala? La sede del governo tibetano in esilio.. Volevo dirtelo, così..- Io che caddi dalle nuvole, lei sì, aveva avuto il coraggio che io avevo sempre cercato. -Cercano altra gente, giovane, motivata, beh io ho pensato.. ho pensato a te.. mi parli di cambiare vita, no? Sai, mi piacerebbe che venissi con me, che ci fossi tu, con me, in questa cosa. Noi due, come sempre.. Ma lo so, lo so che hai la tua vita..-
Ed il mio rifiuto, sommesso, biascicato, con ancora quel poco di fiducia in quella vita che mi ero costruito in trent'anni, piena della mia indulgenza e delle promesse a me stesso, talvolta inutili e controproducenti. Non avrei potuto mai, non potevo.. Mollare tutto significava fallire.

O forse smetterla di fallire.

Perché l'amore una mattina mi venne a salvare, due giorni dopo che lei era partita, magari per sempre, portando in un bagaglio la nostra stupenda amicizia, i nostri sorrisi e le nostre sbronze. Mi disse -l'amore- che non era in realtà troppo tardi, che non c'era nulla di impossibile se non nella nostra mente, che era ora di lottare per non perdere ciò che di più bello mai mi fosse capitato. E per costruirmi una nuova vita.

L'ONG accettò, mi prese, per quanto avrei dovuto attendere un po' di tempo, ma non c'era tempo più bello di quello passato a sognarla, e risognarla, e sognarla ancora, vestita di due stracci etnici ad insegnare l'inglese in una stamberga di profughi, o a soccorrere chi aveva camminato troppo ed in solitudine sui piedi nudi. Pensarmi vicino a lei. Di nuovo. Senza dirle nulla.

Quel viaggio mi stava terrorizzando, non ero abituato a lunghi spostamenti, ma stavo ritrovando la quiete. Guardavo le montagne all'orizzonte, le più alte del mondo, calmissime ed iridescenti sotto il sole del mattino, mentre l'autobus si arrampicava su, sempre più su, e mi portava verso una nuova vita, verso di lei. Il pensiero di stringere le sue mani, di vederla nuovamente assonnata, potendola forse cingere tra le mie braccia, finalmente, e trovare la forza per una nuova giornata assieme. Una di un milione. Vivere ad una sola voce il dono dell'amore, dentro a noi due e fuori verso il mondo, teso ad illuminarlo completamente.

Non dimenticherò mai il momento più bello della mia vita, quando la vidi, stanca, stupenda e scarmigliata, in fondo a quel un cortile assolato, e poi si girò e lei vide me, rinnovando dentro il mio cuore il miracolo del suo sorriso, che un attimo dopo si sarebbe rigato delle lacrime più dolci.


Paolo - fine giugno 2005

mercoledì, settembre 14, 2005

Da un anno nel deserto- La più grande esperienza (1)



Perché il significato ti trovi a crearlo tu, giorno dopo giorno, e non è mai quello che ti aspetteresti, tantomeno quello che ti saresti aspettato partendo per il deserto.
Puoi pensarti su ogni strada, immaginarla, ma la presunzione di conoscere l’infinito è lo sbaglio peggiore per un uomo. L’infinito non lo si immagina, lo si vive.
Quando capisci che sei solo, sei libero da tutto. Hai un foglio bianco per costruirti il tuo significato, il tuo senso delle cose.

Crei. E l’infinito diviene esperienza.

Di un tratto ti ritrovi ad essere di nuovo ricco, di una ricchezza che non può essere rubata né invidiata. E' tutto ciò che hai, ma non potresti chiedere null’altro. Hai tutto, perché d’un tratto comprendi l’universo, comprendi le sue sfaccettature, e le potenzialità che ti sono state donate. E' una situazione potenzialmente pericolosa, in quanto può nascere un profondo abbandono, quello che porta a lasciare questa terra per esplorare le infinità. A quel punto è molto facile venire assorbiti dallo Spirito, nella forma di altre realtà. Realtà perché anch’esse sono reali, concrete, ma diversamente tangibili. E a quel punto ci si scioglie dentro, e non si fa mai più ritorno alla terra natia, quella che ci imbriglia ma che è l’unica in grado di proteggerci. Costoro sono quelli che si perdono nei cosiddetti viaggi dell’anima.

Imprevisti, opportunità..
Così è il nostro mondo. Si vive un anno nel deserto senza un perché.
Non per andare in qualche particolare luogo, non per portare a casa trofei. Senza poterlo raccontare.
Un’esperienza che nasce e muore all’insegna della più intima individualità.

paolo

martedì, settembre 13, 2005

Come ogni giorno


E’ l'alba, e come ogni giorno una sveglia inutile mi butta giù prima del sorgere del Sole. Nella mia casetta, nel mio buco storico di un centro ancor più storico, di quelli che a due lire si affittano a studenti ed operai. Non amo avere troppe cose attorno a me, ma il fracasso della città al mattino mi rende in un qualche modo sicuro. Un salto al bagno, rabbocco la mia borsa mezza piena e con un balzo sono fuori.

Mi investono nella strada rari clacson, quelli delle sette del mattino, quelli che anelano a un cornetto ed un caffè. Sono affezionato a questo marciume, a questa puzza di vita e di conti alla rovescia, conti nel portafogli, conti di minuti, conti sbagliati, conti contigui, conti e marchesi che qui si vedono solo in tivù.

Raccolgo sguardi di quartiere ormai abituati, come ogni giorno. Ma è sulla metropolitana leggera che assaggio il primo alito di vita.

Certo il vedere un clown a quest'ora pare strano. Ma qui raccolgo i primi sguardi su di me, qui inizia la mia benevola missione. Scusa, mamma, se in questi momenti potrei deluderti, ma ora non puoi vedermi, e va bene così.
Tre, quattro, la quinta.
Ancora una fermata e sono in Piazza Centrale.

Bellimbusti incravattati, che sorridono della mia stranezza. Finti sguardi abituati, di chi mi conosce già e non ha tempo da perdere per sorridere. Alcuni operai, che non nascondono le risate, e i commenti sinceri sulle scarpe rosso fuoco numero sessantadue che per il momento tengo ancora in mano.
Impiegate frustrate, contese tra capi arroganti ed alienati, la voglia di emergere ed una famiglia, tesoro talvolta apprezzato.

Strappare qualche sguardo, anche non innocente e cinetico come quello di un bambino, a chi perso nei suoi pensieri ed aggrappato ad un corrimano bisunto sta navigando nei suoi problemi, ampiamente enfatizzati dall'insonnia, bene questa è parte della mia missione.

Tshhhhhhhhhh........... sono in Piazza Centrale.
Il caos di un giorno lavorativo, il fermento delle sette e quarantaquattro, i -Non ho tempo-, -Se va male perdo il lavoro-, -Non vedo l'ora che sia stasera per la partita-, -Oggi forse vedo Simona-, il non potere usare la calma perché oggi non è permesso, è così, è il meccanismo, non lo si può fermare.

In mezzo. Il segreto è stare in mezzo. E’ un po' un posto vietato, da regole non scritte, il punto dove le traiettorie dovrebbero intersecarsi, dovrebbero farlo, ma lo fanno sempre un po' più in là, due metri a destra, due metri a sinistra. Il punto di mezzo di Piazza Centrale; è il posto del turista, ma non a quest'ora, non oggi.

Lì indosso le scarpe rosso fuoco numero sessantadue, e dalla borsa magica estraggo le mie clave. Sorelle Clave... Lì gioco, lì mi esibisco, lì ha inizio il mio spettacolo. Lì rompo la monotonia della scala bicromatica con i miei calzoni, il mio giallo e il rosso fuoco.

Chi mi ignora, chi mi ammira, chi mi ridicolizza. Quelli per cui non esisto, quelli che indossano un po' di coraggio e mi salutano, vedendomi ogni mattina. La ragazza con i tacchi viola, la signora con la permanente che porta a passeggio il cane, e ogni tanto lascia tintinnare un euro.
Quel rumore freddo di un oggetto signorato.

Le mie clave mi sostengono, ed io sostengo loro. Mi bastano pochi metri quadrati, e qualche metro in alto. Volano, roteano, conservano il loro momento angolare, turbinano nell'attrito con l'aria.
Ed io le afferro, e con le mie scarpe rosso fuoco numero sessantadue ed un piccolo mangiacassette di dieci anni fa rubo sguardi, pensieri, sorrisi, e anche qualche soldo ai passanti.

Qualcuno si ferma attonito a guardare. Talvolta due studenti ritornano chiedendomi come si fa con cinque clave. La mia gioia è immensa.

La mia liberazione dondola come le clave sulla mano, prima di essere lanciate verso il cielo.
Sospiro come un infante. Sono felice. Dietro la maschera da clown c'è un uomo felice, sappiatelo tutti.
La giocoleria è estasi, e la gente, le persone intorno a me lo carpiscono, e sono orgoglioso di rubar loro un attimo nella frenesia di un meccanismo che non comprendono, ma tuttavia imprescindibile.

Come le clave ritornano alla mano, io ritorno alla metro. Dopo un'ora circa, mancano cinque alle nove. Altre tre fermate, e al centro di un piccolo giardino c'è un bagno pubblico. Come ogni
giorno.
Entro, giallo, esco, nero, con in mano la mia borsa delle meraviglie, ora chiusa chiusissima.

Duecento metri a piedi, sette piani di ascensore, matricola milleottocentoquarantadue. La cui radice dà quarantadue virgola novecentodiciotto cinque due sette quattro sei sette sette quattro
nove...
-Buongiorno, Spinori, si prepari a fare straordinario. Quel progetto datawarehouse per la JBT, ricorda? Non va, hanno detto, è da rifare. E lo voglio entro stasera-

Oggi sarà dura. Come ogni giorno.

Paolo -marzo 2005-

lunedì, settembre 12, 2005

La fuga


Gli ho spaccato il naso. Gliel’ho sfracellato proprio in mezzo alla faccia. L’ho lasciato a rantolare imbrattato del suo sangue. Vestito della sporcizia che si è cercato per una vita intera. Il suo fisico strapieno di proteine animali si è schiantato come una mela marcia, piena di merda. Distrutto per terra. La sua arroganza si è trasformata in grumi di sangue puzzolente. La sua pancia gonfia e fetida ha rimbalzato a terra e il benedetto attrito, lo sporco sacrosanto secondo principio della termodinamica non gli ha permesso di tornare in piedi. Una palla non rimbalza mai più in alto del punto dalla quale la si è lasciata cadere. Tantomeno un ciccione. Pieno di supponenza.
Io dovrò passare la mia vita in fuga, ma probabilmente lui non potrà mai esercitare la sua capacità di portare del male nelle vite di brava gente.
Sono un concentrato di odio seduto in un’auto lanciata in fuga ai centotrenta all’ora con i finestrini aperti e la musica a palla. Nella mia bisaccia da fuggitivo c’è un pezzo di focaccia due libri e nient’altro. Mi sono tenuto delle banconote, la benzina mi basterà a raggiungere il confine. Poi sarà dura. Non vedrò né amici né parenti insomma una vita nuova.
Sono un proiettile che cavalca la propria adrenalina, una scheggia impazzita rivolta verso l’esterno, verso un’autodistruzione prossima.
Sono l’orgoglio della ribellione, colui che non ha paura del vento, una linea dritta verso la propria morte. Staranno già cercandomi. Non me ne frega niente. I prati intorno a me, l’insalata che fa da contorno alla carretta su cui marcio, strafiera del suo ultimo viaggio per la libertà di un individuo, non sono cambiati. E’ cambiata l’immagine che io ho di quei prati. Non è cambiato il cielo terso sopra la mia testa, ma il mio modo di guardare a lui.
Sono la rabbia verso chi, incapace di gestire la merda che ha dentro, si impone delle regole e passa la vita a tentare di instillarle agli altri, convinto di essere il meglio. Sono il giustiziere. Colui che rivendica sé stesso. Colui che rivuole la sua sacrosanta individualità, il suo benedettissimo relativismo. Non ho mai fatto del male a nessuno, prima di oggi. Domani sarò in cima a quei monti, a mangiare da vicino il vento, dopo avere lasciato le quattro ruote per la libertà in mezzo a qualche bosco sconosciuto. Sopravvivrò.
E se morissi? Se la mia morte fosse più vicina di quello che ho sempre immaginato? Quand’ero piccolo pensavo che sarei morto a ottantatre anni. Era diventata una vera fissazione. Contavo gli anni e i mesi. Poi mi è passò, ma mi restò il fantasma del ricordo.
Ora vedo il numero ottantatre come qualcosa di talmente remoto che mi fa quasi ridere. Ed ho cambiato il modo di guardare al cielo. Se lui piangerà, io piangerò. Ho sempre immaginato tante cose pazze da fare, quelle azioni che automaticamente ti collocano ai margini della maledetta società, che ti buttano istantaneamente al di fuori dei binari, dove c’è solo caos. Ma anche al di fuori dello zoo. Ora ci sono, fuori. Ho strappato le sbarre, e l’ho fatto con stile. Ho spappolato uno di quei bastardi che le gabbie le costruiscono, e pensano di esserne al contempo fuori solo perché loro le hanno create, e quindi credono di poterne conservare segretamente le chiavi per uscire e rientrare a piacimento, al di sopra dei sospetti dei comuni poveracci.
Non questa volta. Questa o mi ha preceduto nell’ultimo viaggio oppure dovrà fare i conti a lungo prima di risollevare i suoi cento chili di schifo. E farà fatica a riprendersi. Intanto si mangerà il fegato fino a che non vedrà me morto o sofferente.
E’ l’ultimo atto. Sulla collina c’è un incendio. Sarà a tre chilometri da me. Lascio la macchina sul bordo di una sterrata in salita. Poverina, non ce la fa più.
Corro in mezzo ai boschi, mi sembra di volare. Vado dritto verso il fuoco. Non dovrei, ma c’è qualcosa che mi attira lassù. Sono la fiamma che arde nel cuore del mondo. Scappo da tutte le finzioni e dalle regole. Non ci sono nubi, anche se forse le vorrei. Mi aggrappo ad un piccolo sentiero di taglialegna. Non c’è nessuno. Non voglio nessuno.
Corro senza sete, sentendo ululare il mio corpo e il mio niente. Ho sempre odiato la violenza, ed oggi ho infranto un ideale che mi sono portato appresso fin da piccolo. Domani forse me ne pentirò, se questo fuoco non mi avrà già divorato. Ma essere senza scelta, e sperimentare quell’appagamento bestiale, feroce, corporale nel vedere il mio nemico, nemico di chiunque se non di sé stesso stramazzare dichiarando la sua inferiorità imbarazzante, puzzolente, messo di fronte all’ultima prova, quella basata sulla supremazia fisica, uno contro uno.. Lo scontro nella sua forma atavica, deprivato di ogni sovrastruttura sociale. Due uomini, uno di fronte all’altro, uno che schiaccerà l’altro. E colui che è sempre vissuto per schiacciare stavolta cadrà, nel residuo del lerciume che si porta dietro, a fondo tra le pieghe del suo lungo intestino.
Mi godo l’aria tra i capelli e queste fiamme ancora più vicine. Oramai ho varcato il confine. Il sentiero corre nudo tra gli alberi, rinsecchiti da questa maledetta estate della fine del mondo. Non ho sangue del ciccione addosso, sono nudo anch’io. Stringo la zaino, correrò. Le mie gambe scivolano da sole, in mezzo alle fiamme dell’inferno. Mi prendono fuoco i capelli, ma non ho intenzione di fermarmi. Con una mano è tutto spento.
Sono la vendetta del fuoco e del vento. Sono la paura della morte e la morte stessa.
La mia vita non finirà. Il mio respiro è lieve, io sono di là. Sono due occhi spalancati che guardano un nuovo mondo. Gli occhi di un assassino puro come la brezza del mare.
Una strada. Passa una vecchia macchina furgonata. Si ferma. Io salgo.

Paolo, ---Dieci minuti di un pomeriggio di luglio 2005---