lunedì, settembre 19, 2005

Da "La sera prima" (1.La sera dopo)


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Mi capita spesso col mio lavoro di riflettere sul dolore che provano gli alberi. Li taglio, li toso, talvolta mi tocca pure ammazzarli. Ma mi fa più paura il dolore degli uomini, e quello degli animali. Forse per affinità di specie. Difatti sono vegetariano, non riesco a mangiare delle bestie che devono avere urlato, sofferto, o che sono cresciute solo per essere mangiate da noi, ma che vita è? Per riempirmi la pancia di proteine animali indigeribili e cagare marcio e a fatica. Preferisco i vegetali. Ho sempre avuto problemi di stitichezza, ma non più da quando ne mangio a quintalate. Di verdura.

Marcuzzo è una testa di minchia, ma la testa di minchia a cui sono più affezionato; siamo cresciuti assieme, ma dopo le superiori io ho mollato tutto per scappare sulle piante mentre lui si è laureato, sposato con una stronza, divorziato dalla stronza, cambiato di lavoro e di abito più di una volta fino a quando si è ritrovato a guadagnare fior di dollaroni gestendo un agriturismo, assaggiando vino e dicendo stronzate sull'aroma che ricorda l'orchidea degli Urali, nonché infilzando la gente secondo pratiche sadomaso cinesi del tremila avanti Cristo. Certa gente ha proprio culo. Beh, forse con le donne lui non ne ha mai avuto molto.

Troppo buono. Troppo buono con l’altro sesso, quindi destinato a soffrire. Affascinante sì, e quasi onnisciente -tanto da essere soprannominato “mister Sotutto” da noi suoi amici-, ma ingenuo con le creature femminili, una carta moschicida per le stronze. Un matrimonio e cinque o sei storie lunghe fallite, ma tutto il resto del mondo nel palmo della mano. E’ una di quelle persone che non guardano la realtà dall’esterno, il tempo scorrere, ma ne cambiano il flusso, riuscendo a fare quello che desiderano.
Io e lui, Marcuzzo e Luca, amici da una vita, amici per la vita. Potremmo tenere un diario l’uno dell’altro, con annotate su tutte le bevute, le feste, le donne, i deliri mistici, le soddisfazioni esistenziali.
Io che parlo con gli alberi, lui con le stangone da televisione che vanno da lui a farsi pungere la schiena alla ricerca della forma perfetta, della chiappa più soda, del calciatore più pieno di soldi.

Mi infuriai con lui, la sera dopo il mio delirio. Con lui e con tutti gli altri, Gianni, Onesto, Nespola, la Diva, i soliti del sabato sera. Bisogna immolarsi in qualche modo, il sabato sera. Immolare la nostra giovinezza al divertimento. Ma sacrificare così un amico, e farlo risvegliare sul bordo di una strada provinciale –cazzo all’inizio non capivo nemmeno quale strada fosse, mi sentivo in un incubo- derubato di tutto, pure della sua identità, già vacillante peraltro.. Stavolta avevano esagerato.
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paolo

venerdì, settembre 16, 2005

Racconto - La quiete e l'amore


Un giorno chiamai Sandro, il mio amico più caro. -Sai- gli dissi. -Forse mi piace Barbara-.
Nel giro di due settimane lasciai fidanzata e lavoro, e mi ritrovai su di un autobus stracarico da Delhi per Dharamsala, ai piedi della catena dell'Himalaya, in mezzo a trekker, pellegrini buddisti, volontari ed alpinisti.

Barbara era sempre stata la mia migliore amica, sin dai tempi delle scuole medie. Avevo passato anni ed anni con lei al mio fianco, sempre pronta a raccogliere le mie confidenze, ed io le sue. Anche l'università non ci aveva allontanati, pur avendo compiuto due scelte differenti non ci eravamo mai persi di vista, addirittura per un periodo avevamo condiviso un bilocale, studiando nella stessa città. Ricordo le mille cene assieme, parlando di storie d'amore, di filosofia, di politica ed attualità, tra bicchieri di vino rosso e reminescenze del passato.

Il sole che inondava la mia stanza al mattino, io che mi alzavo e facevo yoga, la porta della sua stanza da cui usciva lei, sonnecchiante, che metteva a scaldare l'acqua per il the, guardandomi come per dire -ma chi te lo fa fare di autoinfliggermi tanta sofferenza-. Non capiva che quella per me non era sofferenza, ma una sorta di purificazione dai demoni interiori che mi perseguitavano, e l'unica possibile. E che solo ora forse mi permettevano di riconoscere la verità. Già, perché l'amore non è solamente folgorazione, vortice di passioni, poi litigi e sofferenza, ma è anche l'avere una ragazza vicina a te così, anni ed anni, come amica più cara, vederla in tutina con gli occhi addormentati che ti sorride tutte le mattine appena alzata prima di andare in università, ascoltarla mentre ti esprime, se è il caso, una forte e sincera disapprovazione verso ciò che fai, averla accanto che ti sorregge la testa mentre sei ubriaco, oppure che ti cerca anche solo così, per parlare di qualche stupidaggine che le è accaduta, perché il tuo parere per lei è importante. Fino a capire che quello si chiama amore, e comprenderne la straordinaria forza solo quando quella ragazza non c'è più, è andata via, e nessuno sa quando tornerà, e se tornerà.

Il mio fidanzamento, il mio lavoro come recruiter, e la mia vita sempre alla ricerca di qualcosa di intimo e spirituale, mai riuscito a focalizzare, scavando avidamente dentro di me nel mio poco tempo libero. E Barbara, con la quale trovarmi ogni tanto per esprimerle il mio disagio, per sentirmi dire, con la sua purezza quasi puerile -ma se la tua vita non ti va, perché non cambi? Comincia dalle cose che terresti-. Avrei tenuto lo yoga, ed avrei tenuto lei, sempre al mio fianco, anche se distante chilometri e chilometri.

Poi quel giorno, in riva al fiume -Sai, ho preso una decisione. Partirò per l'India, voglio fare un'esperienza nuova, per la vita. Lavorerò in una ONG per almeno due anni, dovrei partire per Dharamsala tra un mese circa. Sai, Dharamsala? La sede del governo tibetano in esilio.. Volevo dirtelo, così..- Io che caddi dalle nuvole, lei sì, aveva avuto il coraggio che io avevo sempre cercato. -Cercano altra gente, giovane, motivata, beh io ho pensato.. ho pensato a te.. mi parli di cambiare vita, no? Sai, mi piacerebbe che venissi con me, che ci fossi tu, con me, in questa cosa. Noi due, come sempre.. Ma lo so, lo so che hai la tua vita..-
Ed il mio rifiuto, sommesso, biascicato, con ancora quel poco di fiducia in quella vita che mi ero costruito in trent'anni, piena della mia indulgenza e delle promesse a me stesso, talvolta inutili e controproducenti. Non avrei potuto mai, non potevo.. Mollare tutto significava fallire.

O forse smetterla di fallire.

Perché l'amore una mattina mi venne a salvare, due giorni dopo che lei era partita, magari per sempre, portando in un bagaglio la nostra stupenda amicizia, i nostri sorrisi e le nostre sbronze. Mi disse -l'amore- che non era in realtà troppo tardi, che non c'era nulla di impossibile se non nella nostra mente, che era ora di lottare per non perdere ciò che di più bello mai mi fosse capitato. E per costruirmi una nuova vita.

L'ONG accettò, mi prese, per quanto avrei dovuto attendere un po' di tempo, ma non c'era tempo più bello di quello passato a sognarla, e risognarla, e sognarla ancora, vestita di due stracci etnici ad insegnare l'inglese in una stamberga di profughi, o a soccorrere chi aveva camminato troppo ed in solitudine sui piedi nudi. Pensarmi vicino a lei. Di nuovo. Senza dirle nulla.

Quel viaggio mi stava terrorizzando, non ero abituato a lunghi spostamenti, ma stavo ritrovando la quiete. Guardavo le montagne all'orizzonte, le più alte del mondo, calmissime ed iridescenti sotto il sole del mattino, mentre l'autobus si arrampicava su, sempre più su, e mi portava verso una nuova vita, verso di lei. Il pensiero di stringere le sue mani, di vederla nuovamente assonnata, potendola forse cingere tra le mie braccia, finalmente, e trovare la forza per una nuova giornata assieme. Una di un milione. Vivere ad una sola voce il dono dell'amore, dentro a noi due e fuori verso il mondo, teso ad illuminarlo completamente.

Non dimenticherò mai il momento più bello della mia vita, quando la vidi, stanca, stupenda e scarmigliata, in fondo a quel un cortile assolato, e poi si girò e lei vide me, rinnovando dentro il mio cuore il miracolo del suo sorriso, che un attimo dopo si sarebbe rigato delle lacrime più dolci.


Paolo - fine giugno 2005

mercoledì, settembre 14, 2005

Da un anno nel deserto- La più grande esperienza (1)



Perché il significato ti trovi a crearlo tu, giorno dopo giorno, e non è mai quello che ti aspetteresti, tantomeno quello che ti saresti aspettato partendo per il deserto.
Puoi pensarti su ogni strada, immaginarla, ma la presunzione di conoscere l’infinito è lo sbaglio peggiore per un uomo. L’infinito non lo si immagina, lo si vive.
Quando capisci che sei solo, sei libero da tutto. Hai un foglio bianco per costruirti il tuo significato, il tuo senso delle cose.

Crei. E l’infinito diviene esperienza.

Di un tratto ti ritrovi ad essere di nuovo ricco, di una ricchezza che non può essere rubata né invidiata. E' tutto ciò che hai, ma non potresti chiedere null’altro. Hai tutto, perché d’un tratto comprendi l’universo, comprendi le sue sfaccettature, e le potenzialità che ti sono state donate. E' una situazione potenzialmente pericolosa, in quanto può nascere un profondo abbandono, quello che porta a lasciare questa terra per esplorare le infinità. A quel punto è molto facile venire assorbiti dallo Spirito, nella forma di altre realtà. Realtà perché anch’esse sono reali, concrete, ma diversamente tangibili. E a quel punto ci si scioglie dentro, e non si fa mai più ritorno alla terra natia, quella che ci imbriglia ma che è l’unica in grado di proteggerci. Costoro sono quelli che si perdono nei cosiddetti viaggi dell’anima.

Imprevisti, opportunità..
Così è il nostro mondo. Si vive un anno nel deserto senza un perché.
Non per andare in qualche particolare luogo, non per portare a casa trofei. Senza poterlo raccontare.
Un’esperienza che nasce e muore all’insegna della più intima individualità.

paolo

martedì, settembre 13, 2005

Come ogni giorno


E’ l'alba, e come ogni giorno una sveglia inutile mi butta giù prima del sorgere del Sole. Nella mia casetta, nel mio buco storico di un centro ancor più storico, di quelli che a due lire si affittano a studenti ed operai. Non amo avere troppe cose attorno a me, ma il fracasso della città al mattino mi rende in un qualche modo sicuro. Un salto al bagno, rabbocco la mia borsa mezza piena e con un balzo sono fuori.

Mi investono nella strada rari clacson, quelli delle sette del mattino, quelli che anelano a un cornetto ed un caffè. Sono affezionato a questo marciume, a questa puzza di vita e di conti alla rovescia, conti nel portafogli, conti di minuti, conti sbagliati, conti contigui, conti e marchesi che qui si vedono solo in tivù.

Raccolgo sguardi di quartiere ormai abituati, come ogni giorno. Ma è sulla metropolitana leggera che assaggio il primo alito di vita.

Certo il vedere un clown a quest'ora pare strano. Ma qui raccolgo i primi sguardi su di me, qui inizia la mia benevola missione. Scusa, mamma, se in questi momenti potrei deluderti, ma ora non puoi vedermi, e va bene così.
Tre, quattro, la quinta.
Ancora una fermata e sono in Piazza Centrale.

Bellimbusti incravattati, che sorridono della mia stranezza. Finti sguardi abituati, di chi mi conosce già e non ha tempo da perdere per sorridere. Alcuni operai, che non nascondono le risate, e i commenti sinceri sulle scarpe rosso fuoco numero sessantadue che per il momento tengo ancora in mano.
Impiegate frustrate, contese tra capi arroganti ed alienati, la voglia di emergere ed una famiglia, tesoro talvolta apprezzato.

Strappare qualche sguardo, anche non innocente e cinetico come quello di un bambino, a chi perso nei suoi pensieri ed aggrappato ad un corrimano bisunto sta navigando nei suoi problemi, ampiamente enfatizzati dall'insonnia, bene questa è parte della mia missione.

Tshhhhhhhhhh........... sono in Piazza Centrale.
Il caos di un giorno lavorativo, il fermento delle sette e quarantaquattro, i -Non ho tempo-, -Se va male perdo il lavoro-, -Non vedo l'ora che sia stasera per la partita-, -Oggi forse vedo Simona-, il non potere usare la calma perché oggi non è permesso, è così, è il meccanismo, non lo si può fermare.

In mezzo. Il segreto è stare in mezzo. E’ un po' un posto vietato, da regole non scritte, il punto dove le traiettorie dovrebbero intersecarsi, dovrebbero farlo, ma lo fanno sempre un po' più in là, due metri a destra, due metri a sinistra. Il punto di mezzo di Piazza Centrale; è il posto del turista, ma non a quest'ora, non oggi.

Lì indosso le scarpe rosso fuoco numero sessantadue, e dalla borsa magica estraggo le mie clave. Sorelle Clave... Lì gioco, lì mi esibisco, lì ha inizio il mio spettacolo. Lì rompo la monotonia della scala bicromatica con i miei calzoni, il mio giallo e il rosso fuoco.

Chi mi ignora, chi mi ammira, chi mi ridicolizza. Quelli per cui non esisto, quelli che indossano un po' di coraggio e mi salutano, vedendomi ogni mattina. La ragazza con i tacchi viola, la signora con la permanente che porta a passeggio il cane, e ogni tanto lascia tintinnare un euro.
Quel rumore freddo di un oggetto signorato.

Le mie clave mi sostengono, ed io sostengo loro. Mi bastano pochi metri quadrati, e qualche metro in alto. Volano, roteano, conservano il loro momento angolare, turbinano nell'attrito con l'aria.
Ed io le afferro, e con le mie scarpe rosso fuoco numero sessantadue ed un piccolo mangiacassette di dieci anni fa rubo sguardi, pensieri, sorrisi, e anche qualche soldo ai passanti.

Qualcuno si ferma attonito a guardare. Talvolta due studenti ritornano chiedendomi come si fa con cinque clave. La mia gioia è immensa.

La mia liberazione dondola come le clave sulla mano, prima di essere lanciate verso il cielo.
Sospiro come un infante. Sono felice. Dietro la maschera da clown c'è un uomo felice, sappiatelo tutti.
La giocoleria è estasi, e la gente, le persone intorno a me lo carpiscono, e sono orgoglioso di rubar loro un attimo nella frenesia di un meccanismo che non comprendono, ma tuttavia imprescindibile.

Come le clave ritornano alla mano, io ritorno alla metro. Dopo un'ora circa, mancano cinque alle nove. Altre tre fermate, e al centro di un piccolo giardino c'è un bagno pubblico. Come ogni
giorno.
Entro, giallo, esco, nero, con in mano la mia borsa delle meraviglie, ora chiusa chiusissima.

Duecento metri a piedi, sette piani di ascensore, matricola milleottocentoquarantadue. La cui radice dà quarantadue virgola novecentodiciotto cinque due sette quattro sei sette sette quattro
nove...
-Buongiorno, Spinori, si prepari a fare straordinario. Quel progetto datawarehouse per la JBT, ricorda? Non va, hanno detto, è da rifare. E lo voglio entro stasera-

Oggi sarà dura. Come ogni giorno.

Paolo -marzo 2005-

lunedì, settembre 12, 2005

La fuga


Gli ho spaccato il naso. Gliel’ho sfracellato proprio in mezzo alla faccia. L’ho lasciato a rantolare imbrattato del suo sangue. Vestito della sporcizia che si è cercato per una vita intera. Il suo fisico strapieno di proteine animali si è schiantato come una mela marcia, piena di merda. Distrutto per terra. La sua arroganza si è trasformata in grumi di sangue puzzolente. La sua pancia gonfia e fetida ha rimbalzato a terra e il benedetto attrito, lo sporco sacrosanto secondo principio della termodinamica non gli ha permesso di tornare in piedi. Una palla non rimbalza mai più in alto del punto dalla quale la si è lasciata cadere. Tantomeno un ciccione. Pieno di supponenza.
Io dovrò passare la mia vita in fuga, ma probabilmente lui non potrà mai esercitare la sua capacità di portare del male nelle vite di brava gente.
Sono un concentrato di odio seduto in un’auto lanciata in fuga ai centotrenta all’ora con i finestrini aperti e la musica a palla. Nella mia bisaccia da fuggitivo c’è un pezzo di focaccia due libri e nient’altro. Mi sono tenuto delle banconote, la benzina mi basterà a raggiungere il confine. Poi sarà dura. Non vedrò né amici né parenti insomma una vita nuova.
Sono un proiettile che cavalca la propria adrenalina, una scheggia impazzita rivolta verso l’esterno, verso un’autodistruzione prossima.
Sono l’orgoglio della ribellione, colui che non ha paura del vento, una linea dritta verso la propria morte. Staranno già cercandomi. Non me ne frega niente. I prati intorno a me, l’insalata che fa da contorno alla carretta su cui marcio, strafiera del suo ultimo viaggio per la libertà di un individuo, non sono cambiati. E’ cambiata l’immagine che io ho di quei prati. Non è cambiato il cielo terso sopra la mia testa, ma il mio modo di guardare a lui.
Sono la rabbia verso chi, incapace di gestire la merda che ha dentro, si impone delle regole e passa la vita a tentare di instillarle agli altri, convinto di essere il meglio. Sono il giustiziere. Colui che rivendica sé stesso. Colui che rivuole la sua sacrosanta individualità, il suo benedettissimo relativismo. Non ho mai fatto del male a nessuno, prima di oggi. Domani sarò in cima a quei monti, a mangiare da vicino il vento, dopo avere lasciato le quattro ruote per la libertà in mezzo a qualche bosco sconosciuto. Sopravvivrò.
E se morissi? Se la mia morte fosse più vicina di quello che ho sempre immaginato? Quand’ero piccolo pensavo che sarei morto a ottantatre anni. Era diventata una vera fissazione. Contavo gli anni e i mesi. Poi mi è passò, ma mi restò il fantasma del ricordo.
Ora vedo il numero ottantatre come qualcosa di talmente remoto che mi fa quasi ridere. Ed ho cambiato il modo di guardare al cielo. Se lui piangerà, io piangerò. Ho sempre immaginato tante cose pazze da fare, quelle azioni che automaticamente ti collocano ai margini della maledetta società, che ti buttano istantaneamente al di fuori dei binari, dove c’è solo caos. Ma anche al di fuori dello zoo. Ora ci sono, fuori. Ho strappato le sbarre, e l’ho fatto con stile. Ho spappolato uno di quei bastardi che le gabbie le costruiscono, e pensano di esserne al contempo fuori solo perché loro le hanno create, e quindi credono di poterne conservare segretamente le chiavi per uscire e rientrare a piacimento, al di sopra dei sospetti dei comuni poveracci.
Non questa volta. Questa o mi ha preceduto nell’ultimo viaggio oppure dovrà fare i conti a lungo prima di risollevare i suoi cento chili di schifo. E farà fatica a riprendersi. Intanto si mangerà il fegato fino a che non vedrà me morto o sofferente.
E’ l’ultimo atto. Sulla collina c’è un incendio. Sarà a tre chilometri da me. Lascio la macchina sul bordo di una sterrata in salita. Poverina, non ce la fa più.
Corro in mezzo ai boschi, mi sembra di volare. Vado dritto verso il fuoco. Non dovrei, ma c’è qualcosa che mi attira lassù. Sono la fiamma che arde nel cuore del mondo. Scappo da tutte le finzioni e dalle regole. Non ci sono nubi, anche se forse le vorrei. Mi aggrappo ad un piccolo sentiero di taglialegna. Non c’è nessuno. Non voglio nessuno.
Corro senza sete, sentendo ululare il mio corpo e il mio niente. Ho sempre odiato la violenza, ed oggi ho infranto un ideale che mi sono portato appresso fin da piccolo. Domani forse me ne pentirò, se questo fuoco non mi avrà già divorato. Ma essere senza scelta, e sperimentare quell’appagamento bestiale, feroce, corporale nel vedere il mio nemico, nemico di chiunque se non di sé stesso stramazzare dichiarando la sua inferiorità imbarazzante, puzzolente, messo di fronte all’ultima prova, quella basata sulla supremazia fisica, uno contro uno.. Lo scontro nella sua forma atavica, deprivato di ogni sovrastruttura sociale. Due uomini, uno di fronte all’altro, uno che schiaccerà l’altro. E colui che è sempre vissuto per schiacciare stavolta cadrà, nel residuo del lerciume che si porta dietro, a fondo tra le pieghe del suo lungo intestino.
Mi godo l’aria tra i capelli e queste fiamme ancora più vicine. Oramai ho varcato il confine. Il sentiero corre nudo tra gli alberi, rinsecchiti da questa maledetta estate della fine del mondo. Non ho sangue del ciccione addosso, sono nudo anch’io. Stringo la zaino, correrò. Le mie gambe scivolano da sole, in mezzo alle fiamme dell’inferno. Mi prendono fuoco i capelli, ma non ho intenzione di fermarmi. Con una mano è tutto spento.
Sono la vendetta del fuoco e del vento. Sono la paura della morte e la morte stessa.
La mia vita non finirà. Il mio respiro è lieve, io sono di là. Sono due occhi spalancati che guardano un nuovo mondo. Gli occhi di un assassino puro come la brezza del mare.
Una strada. Passa una vecchia macchina furgonata. Si ferma. Io salgo.

Paolo, ---Dieci minuti di un pomeriggio di luglio 2005---