lunedì, settembre 12, 2005

La fuga


Gli ho spaccato il naso. Gliel’ho sfracellato proprio in mezzo alla faccia. L’ho lasciato a rantolare imbrattato del suo sangue. Vestito della sporcizia che si è cercato per una vita intera. Il suo fisico strapieno di proteine animali si è schiantato come una mela marcia, piena di merda. Distrutto per terra. La sua arroganza si è trasformata in grumi di sangue puzzolente. La sua pancia gonfia e fetida ha rimbalzato a terra e il benedetto attrito, lo sporco sacrosanto secondo principio della termodinamica non gli ha permesso di tornare in piedi. Una palla non rimbalza mai più in alto del punto dalla quale la si è lasciata cadere. Tantomeno un ciccione. Pieno di supponenza.
Io dovrò passare la mia vita in fuga, ma probabilmente lui non potrà mai esercitare la sua capacità di portare del male nelle vite di brava gente.
Sono un concentrato di odio seduto in un’auto lanciata in fuga ai centotrenta all’ora con i finestrini aperti e la musica a palla. Nella mia bisaccia da fuggitivo c’è un pezzo di focaccia due libri e nient’altro. Mi sono tenuto delle banconote, la benzina mi basterà a raggiungere il confine. Poi sarà dura. Non vedrò né amici né parenti insomma una vita nuova.
Sono un proiettile che cavalca la propria adrenalina, una scheggia impazzita rivolta verso l’esterno, verso un’autodistruzione prossima.
Sono l’orgoglio della ribellione, colui che non ha paura del vento, una linea dritta verso la propria morte. Staranno già cercandomi. Non me ne frega niente. I prati intorno a me, l’insalata che fa da contorno alla carretta su cui marcio, strafiera del suo ultimo viaggio per la libertà di un individuo, non sono cambiati. E’ cambiata l’immagine che io ho di quei prati. Non è cambiato il cielo terso sopra la mia testa, ma il mio modo di guardare a lui.
Sono la rabbia verso chi, incapace di gestire la merda che ha dentro, si impone delle regole e passa la vita a tentare di instillarle agli altri, convinto di essere il meglio. Sono il giustiziere. Colui che rivendica sé stesso. Colui che rivuole la sua sacrosanta individualità, il suo benedettissimo relativismo. Non ho mai fatto del male a nessuno, prima di oggi. Domani sarò in cima a quei monti, a mangiare da vicino il vento, dopo avere lasciato le quattro ruote per la libertà in mezzo a qualche bosco sconosciuto. Sopravvivrò.
E se morissi? Se la mia morte fosse più vicina di quello che ho sempre immaginato? Quand’ero piccolo pensavo che sarei morto a ottantatre anni. Era diventata una vera fissazione. Contavo gli anni e i mesi. Poi mi è passò, ma mi restò il fantasma del ricordo.
Ora vedo il numero ottantatre come qualcosa di talmente remoto che mi fa quasi ridere. Ed ho cambiato il modo di guardare al cielo. Se lui piangerà, io piangerò. Ho sempre immaginato tante cose pazze da fare, quelle azioni che automaticamente ti collocano ai margini della maledetta società, che ti buttano istantaneamente al di fuori dei binari, dove c’è solo caos. Ma anche al di fuori dello zoo. Ora ci sono, fuori. Ho strappato le sbarre, e l’ho fatto con stile. Ho spappolato uno di quei bastardi che le gabbie le costruiscono, e pensano di esserne al contempo fuori solo perché loro le hanno create, e quindi credono di poterne conservare segretamente le chiavi per uscire e rientrare a piacimento, al di sopra dei sospetti dei comuni poveracci.
Non questa volta. Questa o mi ha preceduto nell’ultimo viaggio oppure dovrà fare i conti a lungo prima di risollevare i suoi cento chili di schifo. E farà fatica a riprendersi. Intanto si mangerà il fegato fino a che non vedrà me morto o sofferente.
E’ l’ultimo atto. Sulla collina c’è un incendio. Sarà a tre chilometri da me. Lascio la macchina sul bordo di una sterrata in salita. Poverina, non ce la fa più.
Corro in mezzo ai boschi, mi sembra di volare. Vado dritto verso il fuoco. Non dovrei, ma c’è qualcosa che mi attira lassù. Sono la fiamma che arde nel cuore del mondo. Scappo da tutte le finzioni e dalle regole. Non ci sono nubi, anche se forse le vorrei. Mi aggrappo ad un piccolo sentiero di taglialegna. Non c’è nessuno. Non voglio nessuno.
Corro senza sete, sentendo ululare il mio corpo e il mio niente. Ho sempre odiato la violenza, ed oggi ho infranto un ideale che mi sono portato appresso fin da piccolo. Domani forse me ne pentirò, se questo fuoco non mi avrà già divorato. Ma essere senza scelta, e sperimentare quell’appagamento bestiale, feroce, corporale nel vedere il mio nemico, nemico di chiunque se non di sé stesso stramazzare dichiarando la sua inferiorità imbarazzante, puzzolente, messo di fronte all’ultima prova, quella basata sulla supremazia fisica, uno contro uno.. Lo scontro nella sua forma atavica, deprivato di ogni sovrastruttura sociale. Due uomini, uno di fronte all’altro, uno che schiaccerà l’altro. E colui che è sempre vissuto per schiacciare stavolta cadrà, nel residuo del lerciume che si porta dietro, a fondo tra le pieghe del suo lungo intestino.
Mi godo l’aria tra i capelli e queste fiamme ancora più vicine. Oramai ho varcato il confine. Il sentiero corre nudo tra gli alberi, rinsecchiti da questa maledetta estate della fine del mondo. Non ho sangue del ciccione addosso, sono nudo anch’io. Stringo la zaino, correrò. Le mie gambe scivolano da sole, in mezzo alle fiamme dell’inferno. Mi prendono fuoco i capelli, ma non ho intenzione di fermarmi. Con una mano è tutto spento.
Sono la vendetta del fuoco e del vento. Sono la paura della morte e la morte stessa.
La mia vita non finirà. Il mio respiro è lieve, io sono di là. Sono due occhi spalancati che guardano un nuovo mondo. Gli occhi di un assassino puro come la brezza del mare.
Una strada. Passa una vecchia macchina furgonata. Si ferma. Io salgo.

Paolo, ---Dieci minuti di un pomeriggio di luglio 2005---

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