giovedì, novembre 23, 2006

Sogni di decadenza.



Morti che mi parlano, e non solo ma che vogliono assolutamente parlare, gente completamente in salute e più o meno giovanile invecchiata e malata, ambienti del tutto piacevoli o perlomeno normali intasati di fumo e decadenza, dove per decadenza si intende anche strutturale. Simboli che mi perseguitano, e rimangono impressi nella mente, con le loro simmetrie ed asimmetrie centrali, voci fuori campo che intonano verità in conoscibili.
Difficoltà a mantenere la lucidità, anche se si è consapevoli.
Il tutto in sogno, ovviamente.

Non ho visto troppi film (anzi, meno della media, almeno suppongo).
Non sono pazzo nel senso patologico (la schizofrenia è sotto controllo, per il momento).
Non sto facendo uso sistematico di alcun tipo di droga (ma tutto è una droga, come tutto è arte, almeno se si osserva un intorno sufficientemente grande).

Coltivo stati di trance naturalmente indotti, ma non penso che questo centri (almeno non in un rapporto causa-effetto).

Ma..
capitare più di due volte nello stesso posto in sogno è già di per sé una cosa inquietante, ma se a questo si aggiunge il fatto che questi sogni sono quasi sempre coscienti, posso iniziare a preoccuparmi. Se poi tali visioni oniriche rappresentano quasi tutte, e parlo di un buon ottanta per cento, città ed edifici in decadenza, gente che è morta o sta per morire, amici o parenti orrendamente invecchiati, direi proprio che non ci siamo.

Altre due precisazioni.
Sono una persona solare, anche se adoro l’autunno.
Non credo nel destino e non sono fatalista, perché andrebbe ad intaccare quella fantastica definizione che mi sta tanto a cuore quale la libertà.

Le conclusioni sono.. esplorare, quando anche il sonno tende a diventare una lotta. E cercare di ricordare, perché anche i sogni lucidi tendono a svanire, col suono della sveglia, forse un po’ più lentamente.



PS Un grazie ad honest per questo
http://www.mpip-mainz.mpg.de/~deserno/scripts/diff_geom/diff_geom.pdf

lunedì, ottobre 30, 2006

Modelli di schiavitù - Parte seconda



“Ci sarà in una delle prossime generazioni un metodo farmacologico per far amare alle persone la loro condizione di servi e quindi produrre dittature, come dire, senza lacrime; una sorta di campo di concentramento indolore per intere società in cui le persone saranno private di fatto delle loro libertà, ma ne saranno piuttosto felici”
Aldous Huxley

Visti i modelli di schiavitù presentati prendendo spunto dal buddismo Vajrayana nella prima parte, qualche parolina mi sento di metterla.

Almeno per quanto riguarda il fottutoventunesimosecolo.

La schiavitù presuppone un padrone. O dei padroni.
La schiavitù presuppone una catena.
Le armi più efficaci per tenere in schiavitù sono la propaganda e la creazione dei bisogni.

Si inseguono a vicenda, e si alimentano l’una dell’altra.
Per fortuna sono vecchio a sufficienza per avere potuto assistere ad un esempio eclatante di creazione dei bisogni: il telefono cellulare. Ne ho visto l’evoluzione, da gadget esclusivo di lavoro, a gadget esclusivo e basta a bene di consumo indispensabile.

Indispensabile. Ecco la parola magica. Ci si preoccupa tanto della droga, della lotta alle dipendenze, quando tutto si sta tramutando in droga, mille nuove dipendenze sono nate e stanno nascendo. Domanda: perché accanirsi così tanto e sempre più contro le droghe, almeno con quelle intese dall’accezione comune, perché è importante il proibizionismo?
Risposta: perché le dipendenze le vogliono decidere loro.

Ma loro chi?
Chi sono i padroni?
Mille parole sono state dette a proposito, non sarò io a dirne mille di più. La caccia è aperta a chiunque voglia cacciare, a suo rischio e pericolo.
E’ Davide che dà la caccia a Golia, ma prima deve rendersi conto che Golia è dentro di lui.
Il mio suggerimento sulla questione è che il sistema si autoalimenti, come fosse stato creato un qualcosa di indipendente, un essere vivo ed intelligente. Un meccanismo per produrre schiavi. Alla base però non ci sono robot, ma uomini. Si è creata l’idea nella maggior parte delle menti di operare per una giusta causa, per una società, per la migliore delle società. Ognuno contribuisce a creare le catene per gli altri, senza rendersi conto che sta obbedendo alla sua.
Il senso del dovere e la voglia di scalare questo grande gioco, per arrivare sempre più in alto sono sufficienti. Perpetrate in milioni di menti, creano un sistema autorigenerante.
Che poi ci sia qualcuno al vertice della piramide, questo..

Ma eccomi al punto.
I modelli di schiavitù sono il ruolo che andiamo ad occupare, il posto in cui ci andiamo a sedere nel cinema globale. Non sempre, come ben si sa, il posto lo scegliamo, molto più spesso scegliamo tra i rimanenti.

Le schiavitù psicologiche insorgono perché noi siamo esseri liberi, e quindi inadatti al ruolo di schiavi.

Possiamo avere un ruolo di prima fila, il ruolo degli dei, oppure essere in alto ma temere di essere insidiati, possiamo avere un posto piacevole ma invidiandone altri.
Possiamo correre senza senso non fermandoci mai a domandarci il perché, possiamo avere un ruolo che non ci aggrada e nutrirci di desideri, possiamo infine essere frustrati dal nostro basso profilo ed essere saturi di rabbia.

Ed ecco qua le sei sfere samsariche. I nostri sei seggi da schiavi.

Ma io continuo a ripetermi che noi siamo esseri liberi, e quindi inadatti a questi ruoli..

venerdì, ottobre 20, 2006

Modelli di schiavitù. - Parte prima


Mi è capitato di recente di riflettere sui modelli di schiavitù contemporanei.
Tradotto: giochiamo a capire “come sono schiavo io, e come sei schiavo tu!!”

Una importante schematizzazione, sorprendentemente attuale, viene dal buddismo Vajrahyana, quando si parla delle sei sfere di distrazione samsariche, ovvero i sei tipi di esistenze soggette a condizionamento.
Tradotto: i sei tipi di schiavitù.

Ora, non sono molto avvezzo ed affezionato alle classificazioni, o altrimenti credo che siano un modo come un altro per “spaccare un continuo”, ma il fatto che questa scala abbia qualche migliaio di anni mi fa perlomeno riflettere.

Paradigma 1: Il dio.
L’assorbimento in sé stessi. La riuscita completa o quasi completa di alcuni obiettivi, il successo quindi, in un certo qual ambito, o l’assorbimento completo nella ricerca dell’apoteosi causa una “trance egoica”, ovvero si diventa l’obiettivo stesso, o la corsa verso di esso. La caduta è sempre rovinosa.

Paradigma 2: Il dio “preso male”.
La corsa verso il raggiungimento di un obiettivo è continua, senza sosta, ed ogni interferenza esterna viene interpretata come dannosa o potenzialmente dannosa. La paranoia e la preoccupazione ne sono caratteristiche fondamentali. La caduta è sempre in agguato.

Paradigma 3: L’uomo e la sua invidia.
Una persona si identifica con uno stile di vita, con ciò che è suo e ciò che non è suo. Il suo materialismo diventa il suo mondo. Si guarda molto attorno, ed è costantemente in una condizione di “invidia” verso chi è simile e lui, ma meglio di lui, secondo il suo modello estetico. Piccole grandi cadute si alternano a momenti di pausa.

Paradigma 4: La corsa senza senso dell’animale.
Mi dispiace utilizzare il termine “animale” con un’accezione negativa, ma riprendo il lessico della classificazione originale. Un’attività continua, che si autoalimenta ed autogiustifica, portata all’estremo, in una corsa folle senza meta, senza scambio o confronto con gli altri, senza senso dell’umorismo o pause di riflessione, schiacciando e calpestando quando necessario.

Paradigma5: Il consumatore di desideri.
Desideri si susseguono ad altri desideri, senza mai raggiungere un’emancipazione. Più sono gli ostacoli, più aumenta l’insoddisfazione. Ma addirittura più sono gli ottenimenti, più saranno i futuri desideri e le conseguenti frustrazioni.

Paradigma 6: Lo spirito aggressivo.
L’aggressività è continua, senza sosta. La rabbia è cieca, la frustrazione e l’insoddisfazione compagne di viaggio. Non c’è tempo per i successi, in quanto l’aggressività si nutre di sé stessa.

Dunque, lo so che raccontato così sembra l’oroscopo, ma è una schematizzazione non da sottovalutare.
Il perché è sotto gli occhi di tutti, ma è più facile correre che fermarsi, soprattutto quando ce lo insegnano ancora prima di venire al mondo.
Presto i modelli di schiavitù seconda parte..
Collezionali tutti!

martedì, ottobre 10, 2006

Intervista al maestro Ching


Intervistatore: Onesto, ovvero non c'è bisogno di spiegare..

Q: Ammazzeresti una mosca? un gatto? una persona? Perché i vegetali si?
Volevo capire quando la vita diventa valevole di essere preservata...

La vita è sempre importante, senza distinzioni. Per rendere più concreta questa mia definizione, e prendere le distanze dallo stesso tipo di risposta che penso darebbe anche Ruini, entro nello specifico, invocando il concetto di invasività.
Ovvero agisco in modo che la mia esistenza sia il meno invasiva possibile. Questo nei confronti delle altre persone, degli animali, dei vegetali, di tutto l’esistente. La scelta di non nutrirsi di animali è una scelta che minimizza l’invasività, tutto qui. Anche nutrendoci dell’animale finiamo per nutrirci indirettamente anche del vegetale che ha nutrito l’animale. Diminuendo anche il rendimento della catena. Alla prima domanda la risposta è no, non ammazzerei, anche se con le mosche raramente capita (e le zanzare, per dio..). E una pretesa di coerenza personale fa sì che io non deleghi l’onere di ammazzare a qualcun altro, dato che io non ne ho la forza, se forza la si vuol chiamare. Se poi si trattasse di sopravvivenza, potrei essere costretto a farlo, ma tra la sopravvivenza e la comune opulenza passa un oceano.

Q: L'appellativo Maestro se lo si autoimpone o viene imposto?

L’appellativo Maestro deriva da “grande”, o “più grande”, quindi non ha senso riferito a me. Ma, riprendendo lo schema del Sutra del Diamante e riferendolo ad un essere illuminato, proprio perché non esiste un Maestro, egli può essere chiamato Maestro.

Q: Nei quartieri dove il sole del buon dio non da i suoi raggi della città
vecchia, come dovrebbero comportarsi le persone? Aborri la violenza, ne hai
paura? Esiste una causa per cui la violenza è adeguata?

Violenza è quella alla quale sono sottoposte le masse, in particolare dei paesi poveri, ogni santo giorno. Ma anche la libertà di ognuno di noi è violentata quotidianamente da regole e regole, la maggior parte senza senso alcuno. Sono fermamente convinto che più aumenta la consapevolezza, più diminuiscono i bisogni e la tolleranza alle regole. Parafrasando Malatesta, l’uomo è abituato a vivere in ceppi, ed a forza di convivere con essi vi si affeziona, fino al punto di credere che siano proprio loro a garantirgli la sopravvivenza.
La violenza come ribellione degli oppressi può essere un concetto affascinante, ma non credo sia la soluzione. Credo innanzitutto sia necessaria una maggiore consapevolezza. La prima tattica per ridurre in schiavitù è inebetire, togliere la capacità di informarsi, di capire, e questo è il primo muro da abbattere perché il sole torni su tutta la città.

Q: Credi nello spirito o nella spiritualità? Se si, esso/a si manifesta in
un qualcosa di tangibile? Pensi che la capacità di astrarre dell'uomo (o
comunque le sue capacità di pensiero) sia in relazione con esso?

No. Semplicemente perché non distinguo tra il materiale e lo spirituale. Astrarre significa dividere, bene penso ora sia il momento di unire.
E’ facile rifugiarsi nello spirito, pensare, astrarre, intelligere, e può essere un modo per affrontare od allontanare la paura della morte. Ma la vera sfida è trovare la propria spiritualità mangiando, guidando, lavando i piatti.


Q: Come ti comporti quando i rapporti di stampo sociale indotti dalle
proprie occupazioni lavorative (ma non solo) ti portano a contatto con
individui senza cervello?

Qualcuno afferma che ci sia da imparare da tutti. Qualcuno afferma che non ci sia nulla da imparare.
In ogni caso, prima di perdersi in elucubrazioni sulle perpetrazioni karmiche dico che l’ironia è un’ottima arma, specie quando parliamo con chi non ha voglia di ascoltare, o con chi ha voglia di parlare e basta, o peggio ha voglia di insegnare.


Q: Consideri la tua condizione di "intellettuale" una condizione superiore
o come Einstein rinascendo vorresti fare l'idraulico?

Semplicemente bandisco la definizione di “superiore” o “inferiore” dal mio vocabolario, in quanto sottintende una visione gerarchica.
Mi rifugio nei termini “differenza” ed “opportunità”.

Q: Quali sono gli individui passati e futuri da cui trai ispirazione?

Traggo ispirazione da tutti i ribelli, da coloro che non agiscono sottostando alla legge di guadagno e di perdita, da coloro che si interrogano sull’utilità delle regole e del controllo ad esse associato.

Q: Non ti viene mai voglia di piangere?

Talvolta l’empatia fa brutti scherzi, e sì, può capitare di piangere.

Q: Lo sai che su google risulta la mia intervista al 5o
posto? http://www.google.it/search?hl=it&q=intervista+onesto&meta=&btnG=Cerca+con+Google

Prima che arrivi la censura… (ndr è arrivata, in un qualche modo..)

Q: Ti alzi la mattina per qualche motivo particolare? vorresti dormire?

Mi alzo perché non ho più sonno, perché sono cosciente che questa è la vita che vivo, ed in un qualche modo va affrontata. Una persona può accettare di vivere in un sistema con determinate regole, vuoi perché non ha la forza di cambiarle, vuoi perché le condivide. Io non ne condivido la maggior parte, ma la strada per il cambiamento è in salita e costellata di ostacoli, e la prima libertà è quella che scaturisce dalla volontà personale.

Q: Credi nei rapporti fra persone "eterni"? intesi sia in senso
sentimental-sessuale che affettivo/empatico/amichevole...

L’eternità presuppone un concetto di tempo, ma qualcuno ci mostra che il tempo è determinato dai cambiamenti. E’ inutile opporsi ai cambiamenti, perché non c’è nulla che non muti.
Ciò non vuol dire che la temporaneità svilisca le cose, anzi a mio avviso le impreziosisce. La pretesa dell’eternità sottintende quasi sempre un attaccamento viscerale, ed una conseguente paura della morte.
Un mio amico direbbe, “prima o poi anche le tette al silicone della Palmas inizieranno a cadere..”

martedì, ottobre 03, 2006

emmedivi2006 (il movimento)


Le cose si possono rileggere in due modi: con le emozioni e con i numeri.

Con i numeri si può dire che c’erano circa 300 (trecento sì, da venir matti) partecipanti, primo Chris davanti a Gabri, Alberto e Paolo, mentre tra le donne Stellina si è portata a casa il gruzzolo, con dietro Elena, Claudia e Giò (non vorrei sbagliarmi). Si può dire che c’è stata una miriade di top, tanto da finire i bigliettini, un macello di prese girate su quei c*zzo di parquet (bellissimi, peraltro, non me ne voglia l’Alpina), chissà quante decine di bordi non consentiti brincati dai furboni (ma chissenefrega in fondo, mai mi metterò a fare il birro, per dirla alla Malatesta), e in ultimo ma non in ultimo i molti infortuni, perché anche questi non vanno dimenticati, tra cui le due fratture (Rosy, Barbara, mi dispiace veramente veramente tanto) e le sette e otto distorsioni ed affini.

Con le emozioni però si può dire molto di più, anche se è molto più difficile comunicare.
Quella di Chris che guanta il top della superfinale, tra le urla del pubblico e salendola in un modo mostruoso, dopo avere sbandierato su due merde (e c’è da fidarsi, erano veramente due merdine), e che poi con la gioia di un ragazzino lancia alla folla il sacchetto della magnesite da lassù.. beh chris, meno male che ci sei!

Poi il Docc che salta ubriaco di qua e di là, che centra un palo mentre camminiamo, che bacia il Gabri alla premiazione, che ci prova con le dolci fanciulle che gli capitano sotto tiro, e poi il Motta che sempre sorridente ed efficientissimo dà la prova di quanto si avvicini all’essere un bodhisattva, e che dire del piede scivolato in finale al Leoncini, c*zzo Paolo che sfiga, nessuno ha capito perché, poi il Nardi -detto Edoarzio- che dimostra di avere una tecnica ed una pazienza impareggiabili, anche con i figli, oltre a tenersi di brutto (bisogna vedere come lui aveva immaginato e salito la superfinale in fase di tracciatura), il fine gara attaccati alla damigiana mentre io cercavo i fondi di polenta, per poi morire arenati come le balene a bere con la congrega del santo alcool monregalese, di cui il bonelli, il Turco, il Borgna, Axel, Kledi e tanti altri.
La mia prima grossa esperienza di tracciatura è stata una figata, che dire..
Ed un grazie vero ai due più grossi cuori del parterre, il Lollo ed il Luis, che mentre tutti magnavano ci hanno aiutati a smontare i blocchi ed a montare le finali.

Tutte cose che con i numeri non si possono descrivere, piccole cose forse, ma non sono quelle che ci fanno più sorridere, e commuovere se è il caso, e prendere bene in generale?

Vabbé, le classifiche e gli altri numeri le lascio ai siti specializzati (anche se segnalo che il grande Gian è arrivato dodicesimo!!).

Tra le piccole note stonate, oltre ai quattro furboni prendi bigliettini, il fatto che non sono stato citato manco di striscio nei report ufficiali, ma me ne frega relativamente, la gloria è una merda solo andata, ed infine la gente che chiama i birri alle undici e mezza per il concerto, la nota malinconica ci vuole sempre in fondo, meno male che abbiamo imparato a sbattercene..

Tutto il resto è da archiviare.

martedì, settembre 26, 2006

Rage Against The Machine


Rage against the machine è il nome di una famosa band crossover, scioltasi nel 2000, quando gwb è stato eletto (eletto?) presidente degli stati uniti d’america, forse la band che più ha saputo dare significato alla parola crossover, dal punto di vista musicale, sociale, politico.
http://www.ratm.com/
Ma rage against the machine è di più. E’ uno slogan, è un urlo, è un promemoria essenziale come dire, non so, qualcosa come..
“ricordati di non essere schiavo”.

The machine è l’ingranaggio giornaliero della vita, è la moderazione politically correct, è la paura, è il mercato globale, sono le ambizioni di potere, sono i limiti che ci si autoimpone. E’ l’istituzione, è l’ingiustizia, sono i ceppi di un carcerato, è il trusted computing, sono le regole che non capiamo, che non vogliamo.

Ma la cosa che più colpisce è che sulla copertina del primo cd dei Rage ci sia una foto famosa, la foto di un monaco buddista, un monaco zen vietnamita, un monaco zen vietnamita in fiamme.
Il suo nome era Thich Quang Duc, e la sua storia è quella che forse meglio rappresenta il messaggio della frase “Rage Against The Machine”.

http://www.quangduc.com/BoTatQuangDuc/18quangduc.html

Thich Quang Duc, al secolo Lam Van Tuc, si è immolato l’11 giugno 1963. Come per ogni atto di un monaco zen è superfluo indicarne lo scopo. Il suo è stato un atto e basta, ma un atto di profonda, infinita compassione. Se proprio si vuole cercare una motivazione sociale, o un motore per questa azione, la si può ricercare nella guerra, nel suo paese diviso ed oppresso da persecuzioni sociali e religiose, nelle ingerenze violente da parte di paesi esteri, nella sua gente che si azzannava in nome di divisioni posticce, di bandiere col volto dell’odio, per la sopravvivenza di “the machine”.

Sul sito a lui dedicato si trova una stupenda poesia, l'autore si chiama Drew Logan, mi sono preso la libertà di tradurla (per domino non si intende domino, ma penso si intenda la Vietnam Domino Theory http://en.wikipedia.org/wiki/Domino_effect):

Hanno detto che eri un drogato
Ha detto che eri un comunista
Hanno detto che eri solo un vecchio rincitrullito
Non hanno detto nulla del tuo spirito
Non hanno detto nulla del tuo coraggio
Non hanno detto nulla della tua compassione
Pieno centro di Saigon, angolo di Phan Dinh Phung e Le Van Duyet
Mezzogiorno dell’undici di giugno, millenovecentosessantatre
Davanti al mondo intero ti sei immolato.
Lam Van Tuc, il vecchio ragazzo di sette anni
Ha dato la vita sapendo di diventare un monaco
Thich Quang Duc, il vecchio monaco di sessantasette anni
Ha dato la vita sapendo di diventare un santo.
Parlavano di domino
Parlavano di comunismo
Parlavano di libertà
Non hanno detto nulla sulla guerra civile
Non hanno detto nulla sui buddisti
Non hanno detto nulla sull’oppressione
Pieno centro di Saigon, angolo di Phan Dinh Phung e Le Van Duyet
Mezzogiorno dell’undici di giugno, millenovecentosessantatre
Davanti al mondo intero ti sei immolato.

je

martedì, settembre 12, 2006

Anima


Jerome accuratamente sottolinea:

Non so perché mi metto a scrivere certe cose.
Riporto, da Repubblicaonline:
Anche gli animali hanno un'anima. Lo sostiene un italiano su due.
Non riporto il testo dell’articolo, ma parla dei risultati di un sondaggio.

Primo: Anima, da wiki.
Secondo il dualismo platonico e gnostico, l'anima è per sua natura simbolo di purezza e spiritualità. Ha la sua origine nel soffio divino (da cui il significato stesso della parola, ossia vento, il soffio). Per Plotino l'anima è la terza ipostasi, la cui essenza è immortale, intellettiva e divina. […]
Secondo la contrapposizione gnostica tra Dio (Perfezione, bene) e Materia (imperfezione, male), l'anima sarebbe stata calata da Dio in un corpo materiale e sarebbe stata contaminata dall'intrinseca malvagità della materia stessa.

Finendo qui le citazioni, l’anima nel senso più tradizionale del termine sembra quindi presumere due cose: l’esistenza di un dio e l’immortalità.

Dubbi:
1)l’esistenza di un dio, (non solo mio, direi, come dubbio). Diciamo che l’esistenza di un dio superiore all’uomo metterebbe l’uomo in condizione di inferiorità rispetto ad esso, alimentando ancora il più generale paradigma gerarchico dio-uomo-animali-altro. Sbilanciamoci così dicendo ancora che l’esistenza di un dio, se provata, avrebbe il vantaggio, per l’uomo, di lasciare aperto uno spiraglio per
2)l’immortalità, la quale, se non si ammette l’esistenza di un dio in quanto entità superiore resterebbe nulla più che un dubbio. Con un dio-superiore, invece, si entrerebbe nel classicissimo paradigma del dio-padre-giudice.
3)tornando all’articolo di Repubblica, il dubbio sulla vaghezza della definizione di animale (che, sotto gli occhi di tutti, contiene la stessa radice etimologica del termine anima). Tutti gli animali avrebbero un’anima? Solo qualcuno? Nessuno?

Postuliamo ora il principio di eguaglianza, almeno fino ad affermare: dio=uomo=animale (dove però per dio qui si intende qualsiasi entità vivente non percepibile con i nostri sensi, quindi virtualmente non esistente, o virtualmente esistente, cosa cambia poi).

Continuerebbe a permanere così il dubbio 1, risultando a questo punto però insignificante, in quanto questa tipologia di dio non potrebbe garantirci l’immortalità. Il dubbio due non avrebbe più così senso di esistere, in quanto a questo punto l’immortalità ce la potremmo tranquillamente scordare (senza un dio-garante-giudice), tranne invocando un interessante artifizio, di origine induista e ripresa da alcune scuole di buddismo, quale la ruota karmica della reincarnazione.

Invochiamolo.

Se dio=uomo=animale (e mi fermo qui per semplificare), potremmo quindi finire per “reincarnarci” come dei, uomini o animali, al che l’anima verrebbe trasportata da un’esistenza all’altra (conservando il ricordo? non conservandolo?) e così fino alla fine dei tempi.

Il terzo dubbio lo si uccide ora dicendo che il segno = porrebbe sullo stesso piano tutti gli animali, comprese le zanzare. Quindi o l’anima esiste per tutti, o per nessuno. Comprese le zanzare.

Sempre per il principio di eguaglianza, se l’anima non esiste per l’uomo, non esiste degli dei, e nemmeno per gli animali. E ci dovremmo accontentare di questa vita.

Lascio perdere eventuali soluzioni “discrete”, quali artifizi del tipo -una massa cerebrale che supera una certa soglia potrebbe implicare la presenza dell’anima-, -l’estensione del principio di eguaglianza al mondo inanimato implicherebbe ulteriori ampliamenti del concetto di anima (sfiorando così l’animismo)-, ecc..

Il perché dell’anima forse rimane l’aspetto più semplice sul quale dibattere, ovvero quest'eccezionale invenzione (o supposizione) ci permetterebbe di porci con più sicurezza di fronte al dubbio 2, spostandoci più o meno lievemente dalla parte dell’immortalità-sì e lenendo così lievemente la paura della morte.

Per toglierci da incredibili complicazioni, forse la soluzione più semplice sembra infine essere quella di scordarci l’anima in generale, e prepararci all’ineluttabilità della morte. O ammettere una definizione il più possibile generale di anima, e prepararci alla nostra prossima vita da zanzare.

je

mercoledì, agosto 30, 2006

Intervista ad Onesto...


Ovvero ciò che più dista dall'uomo medio, almeno come lo definisce lui. Purtroppo questa intervista è avvenuta via email, non ho avuto così tempo di spiegargli cosa intendevo esattamente con tutte le domande. Il senso delle stesse comunque non gli è sfuggito (e figurarsi...), quindi buona lettura, e grazie honest!

-Beh Onesto, innanzitutto, parlami dell'uomo medio..
-Gran brutta bestia! devo ammettere che parti subito dalle domande difficili, ma del resto come si potrebbe mandare avanti l'umanità` altrimenti? Siamo un po' tutti uomini medi, nel senso che facciamo parte di quel campione statistico che da forma alla nostra società. Siamo egoisti con noi stessi, generosi con il diavolo.

-La presenza di un Dio ti inquieterebbe?
Perché mai giovane? La nostra presenza inquieterebbe forse Dio? l'idea di una entità superiore quale un Dio, più dei, il karma, la figa si pone come dogana della razionalità: arrivato all'estremo confine dello spiegabile razionale anche l'uomo medio, anche il panettiere giunge a chiedersi "che cazzo vivo a fare?". Purtroppo la scienza non può (almeno penso io) rispondere a questa domanda: polvere siamo e polvere ritorneremo; a meno che questa venga assimilata ad una risposta all'atavica domanda, penso che il 99% delle persone lo accoglierebbero con un laconico "ma tu sei fuori!".Per attenermi alla domanda posta, personalmente sono indifferente alla presenza eventuale di un Dio e quindi questo non mi inquieterebbe, ma spieghiamoci meglio: ma Dio che scopo ne avrebbe avuto nel crearci? Per farsi venerare? perché a me pare proprio che in tutte le religioni sia proprio questo il punto fondamentale: la venerazione; non gliene frega nessuno dei dogmi della fede, della transucammazione, del concilio di Nicea, l'importante è credere in Dio, "Dio è con noi" avevano scritto i nazisti sulla fibia della cintura, non importa se poi neanche il diavolo si comporterebbe come questi fottuti adoratori! Dio non poteva già crearci con insito il dogma del credo? che me ne faccio del libero arbitrio se tanto poi vengo giudicato senza appello? "Basterebbe seguire le regole del libro sacro" mi sento già controbattere, ma caro interlocutore, riferendomi alla Bibbia, come può un testo scritto da persone ignote, aggiornato ogni tot anni per adeguarsi ai tempi, composto nella sua parte più' moderna da un impero romano che decise di accettare come facenti parte del testo solo 4 dei 30 vangeli che circolavano ai tempi, potersi ergere ad istituto morale di una certa religione nel terzo millennio?

-Credi nel socialismo?
Partiamo prima di tutto da cosa significa socialismo: prendo spunto dalla Wikipedia[...]Il socialismo si oppone inizialmente al liberalismo classico, che postula il liberismo in economia, chiedendo invece la nazionalizzazione o la socializzazione di tutte o parte delle attività economiche e dei mezzi di produzione. Contesta l'idea delle neutralità delle istituzioni statali rispetto alla lotta di classe e si batte per un mutamento del ruolo dello Stato o, addirittura, nella versione avanzata da Karl Marx e ripresa dall'anarchismo, per la sua eliminazione.[...]Poi sorge spontanea la domanda: credere cosa significa? credo che il socialismo possa "trionfare"? credo che la società necessiti di un cambiamento? credo che il socialismo possa rappresentare il cambiamento auspicato per una giustizia sociale? Io penso che il mondo odierno sia fondato sull'ingiustizia e sull'ineguaglianza e vuoi perché faccio parte della "minoranza oppressa", vuoi perché lo reputo un sistema idealmente sbagliato penso che vada cambiato; il modo per farlo è probabilmente la domanda più interessante, ma qui finiamo sul penale....
Leggetevi questi: http://www.polyarchy.org/essays/italiano/socialismo.html

-Secondo te, la rivoluzione è un atto necessario? E, più in generale, come ti poni di fronte alla violenza?
Se l'umanità` o in generale un popolo desidera` "crescere" e questo penso significhi autodeterminazione e libertà` nel poterlo fare, allora e` necessario un cambiamento radicale dell'impostazione della società attuale: una rivoluzione appunto! Nella attuale configurazione della società` democratica dove mi/ci troviamo a vivere è una farsa istituzionalizzata, la democrazia, come il socialismo reale, ha espresso in questi anni i propri limiti più' forti: la nostra vita e` dominata ad ogni livello da realtà` che si sono distaccate totalmente dalle pratiche reali della gente: basti pensare al consumo di droghe quali la Marijuana o l'hascisc che pur essendo consumate da una larga parte della popolazione si ritrovano ad essere vietate in quanto la società` civile le ritiene dannose al quieto vivere, peccato che nessuno e` mai deceduto da consumo da THC (e` probabilmente questo non avverrà` mai se non facendosi colpire con un blocco da 50 Kg di Afgano) mentre l'alcool viene venduto tranquillamente senza problema alcuno in quanto ormai e` nella cultura moderna (forse perché' in Italia e` pieno di vigne, mentre di Marijuana ne coltivano ben poca nonostante l'origine del nome "Canavese"). Purtroppo questo si allarga a tutti i settori della vita.

-È vero che sei ingrassato?
Secondo la mia bilancia si, deve essere merito dell'opulenza che cerca di conquistarmi...

-Escludi la presenza di entità sovrannaturali, magari inorganiche?
Mi spieghi come una entità sovrannaturale potrebbe essere organica? se ti riferisci all'anima dei morti o simili, posso solo affermare che la mia anima da scienziato le escluderebbe, tuttavia ho spesso sentito parlare di avvenimenti contro il razional-pensiero che mi hanno messo dei dubbi... non ho la dimostrazione che non esistono di conseguenza diciamo che non la escludo, inorganiche o no...

-La scienza, secondo te, fino a che punto si può spingere?
Diciamo che non capisco in che senso, forse puo` arrivare a spiegare se stessa (chissa` cosa ne penserebbe Goedel...).

-Preferisci la Palmas o la Canalis?ù
Trattandole tutte e due come prodotti industriali della demagogia sessuale, posso dire di preferire di più' la Palmas in quanto l'essersi rifatta il seno a 2x anni significa che e` proprio tr...

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"L'anarchia economica della società capitalistica, quale esiste oggi, è secondo me la vera fonte del male. Vediamo di fronte a noi un'enorme comunità di produttori, i cui membri lottano incessantemente per privarsi reciprocamente dei frutti del loro lavoro collettivo, non con la forza ma, complessivamente, in fedele complicità con gli ordinamenti legali."
A. Einstein

martedì, luglio 04, 2006

Il dentro ed il fuori


Un flacone di bagnoschiuma in equilibrio sul sottile stipite della doccia. Lo prendi, lo posi, lui cade e non puoi che maledire la sorte. Ti tocca, tutto marcio, tirarlo su prima che se ne versi, nella doccia o peggio al di fuori, sul pavimento antistante ad essa.

Con l’acqua insaponata negli occhi o bagnando tutto il pavimento. Non hai scampo.

Ma l’uomo a questo punto può andare avanti, riflettere.

Qual è il baricentro del flacone pieno? Supponiamo per semplicità che sia un perfetto cilindro a base circolare, od ellittica, approssimazione comunque verosimile. Quand’è pieno il baricentro si trova a metà altezza del flacone.

Ovvia considerazione: il flacone è stabile quanto più si trova in basso il suo baricentro.

Il sistema-bagnoschiuma è composto da due parti: il flacone esterno ed il liquido interno. Il baricentro del contenitore si trova quindi e sempre a metà altezza circa, mentre il baricentro del fluido si trova a metà altezza (lo consideriamo a densità costante) della quantità di liquido presente in quel momento nel flacone.

Se, come ho detto, il flacone è pieno, i due baricentri coincidono, a metà altezza. Quando inizia a svuotarsi, il baricentro del liquido inizia ad abbassarsi, e con esso anche il baricentro dell’intero sistema. Ma non per sempre.
Quando il bagnoschiuma sarà finito, infatti, il flacone sarà vuoto, ed il suo baricentro sarà nuovamente a metà altezza del contenitore.

Orbene, qual è l’altezza magica in corrispondenza della quale il baricentro del sistema è più basso, la struttura quindi più stabile, ed io posso stare più tranquillo nell’appoggiare il flacone sullo stipite?

Come un vortice mi assale una metafora della vita: se ci si preoccupa solamente dell’involucro, la struttura sarà molto instabile; se ci si preoccupa invece dell’aspetto interiore, del contenuto, starà instabile ugualmente.

Il trucco sta nel trovare il massimo equilibrio, che si trova in un punto difficilmente calcolabile, e continuamente mutevole. Un punto che compendi l’influenza del contenuto e del contenitore. Perché il sistema è inscindibile, ed entrambe le parti sono importanti.
Un’alterazione della quantità del contenuto porta uno squilibrio del tutto.

Ma esisterà veramente un contenitore ed un contenuto, o è un’immane presa per il culo?
Uno squilibrio può implicare una caduta, ma una caduta verso dove?

lunedì, giugno 26, 2006

Scrivere della vita e dell'immaginazione...


Purtroppo l’avidità ed il ritmo frenetico della società del consumo della quale faccio parte fa sì che il mio tempo sia limitato, talvolta concentrato in un’autodifesa circoscritta per non subire dipendenza alcuna né farmi travolgere dalla sindrome dello schiavo inconsapevole.

Allora mi nutro della libertà che ho a disposizione, di quella che non si vende al discount anzi non si vende proprio, e attendo di trovare quel tempo, seduto sul balcone di casa mia accanto al bonsai che cresce abusivo direttamente dal pavimento del terrazzo, sfidando ogni legge della natura nonché questo caldo porco, nel quale inforcare la biro e cercare di utilizzare l’inchiostro nero con la massima originalità diviene spontaneo come lo scrosciare di una cascatella di un torrente di montagna, dove l’acqua non si trattiene in alto, ma si lascia dondolare fragorosa verso il basso e verso la sua destinazione. Così l’inchiostro può trasformare una macchia in una testimonianza permanente di una vita impermanente, in un linguaggio codificato e limitato che pur tuttavia può trascendere il suo scopo, i suoi limiti, il luogo che descrive.

Per scrivere io intendo portare avanti “Cinque stelle”, che come primo intento volevo comparisse “a rate” sul blog, ma l’intenzione supera la ragione, e devo desistere. Lo continuerò accanto al mio bonsai, senza fretta, respirando l’aria buona della mancanza di vincoli alcuni. O nel caos onirico.
Ma sono fiducioso.

Nel frattempo uso il blog in quanto blog, e mi lancio nella nuova avventura delle interviste, dopo quella a Rocco avvenuta in un estatico pomeriggio di primavera. La prossima vittima sarà Onesto, ed a differenza di Rocco lui risponderà alle domande senza passare attraverso il mio filtro cognitivo.

Nel frattempo la ricerca della mia personale libertà è passata anche di qui: http://www.buddhanet.net/ dove c’è tantissimo materiale da scaricare (libri su libri), solamente in inglese però, maledetti imperialisti! (i sogghigni…)
Ad esempio ventisei (ventisei!) libri sul Mahayana! E da lì si arriva pure qui: http://www.sanrin.it/ !! Direttamente da Lucio!

Ci si può poi cuocere il cervello passando di qua: http://www.michaelbach.de/ot/mot_adapt/index.html

Buona cucina,

lunedì, giugno 19, 2006

Lucid dreaming


Il sogno lucido è semplicemente il sogno nel quale si diviene consapevoli di stare sognando.
Scrivo questo perché proprio l’altra notte mi è capitato il più lucido e cosciente sogno della mia vita (stupore…) .

Questa è solo una personale introduzione all’argomento, potrei anche prima o poi descrivere il sogno, mi ha aperto delle porte che non pensavo nemmeno esistessero (incredulità…) .

Ho scoperto i sogni lucidi leggendo i magici libri del Castaneda vari anni fa (li ho letti tutti, evviva il fanatismo…). E’ stata un’esperienza straordinaria. Incredibile immaginare che i sogni si possano gestire, comandare, vivere consapevolmente quasi fossero un’altra vita. Faccio una breve introduzione al sogno lucido. E vi garantisco, è tutto vero, non è fantascienza, ho provato tutto sulla mia pelle. Solo, non bisogna avere fretta.
Per un po’ di bibliografia, vi consiglio di leggere “L’arte di sognare” di Carlos Castaneda, una pietra miliare. Oddio, è romanzato, almeno credo, ma la cosa incredibile è che le sue tecniche, almeno quelle che ho provato sulla mia pelle, funzionano. Quindi perché porsi il dilemma che si pone ogni lettore non lobotomizzato di Carlos: -Sarà vero o sarà tutta invenzione?-.

In fondo i suoi libri spingono nell’unica direzione che amo, ovvero la ricerca della libertà personale. E non c’è nulla che fa sentire più liberi della capacità di gestire a piacimento il corpo di sogno.
No, non sono alla quindicesima canna. Per corpo di sogno intendo il nostro corpo, quello che ci sentiamo addosso nei sogni.. Non vi è mai capitato di sentirvi impacciati a muovervi nel sogno, a correre, a parlare, come se il corpo non vi appartenesse? Bene, è solo questione di abitudine, di pratica, di volontà, come tutto nella vita. Lo chiamo imparare a gestire il corpo di sogno, nessuna pratica magica, nessun fricchettonismo new-age: solo una potenzialità in più.

Come sitografia, si può leggere in inglese il sito del Lucidity Institute, a Stanford, http://www.lucidity.com/, dove addirittura emeriti professori fanno ricerche sui sogni lucidi. Hanno persino inventato un aggeggio, il NovaDreamer, in grado mentre si sogna di mandare dei lampi di luce, i quali vengono percepiti dal dormiente, che vedendoli realizza di trovarsi in sogno, comprendendo così che è il momento di divenirne consapevole e di provare a gestirlo.

E qui uno dei punti fondamentali.

So per certo ora che una parte di attenzione viene trasmessa dalla consapevolezza normale, quotidiana, a quella del sogno. Se io penso –stanotte nel sogno se vedo un lampo di luce devo comprendere che sto sognando- e lo penso una, due, venti volte, magari non stanotte, non domani notte, ma prima o poi questa informazione passa dalla coscienza normale alla indisciplinata coscienza del corpo di sogno. Allo stesso modo, se io voglio voglio voglio sognare una certa persona, un certo luogo, o solamente avere un sogno lucido posso stare sicuro che la o lo vedrò o vivrò un sogno lucido. Sperimentato sulla mia pelle, e sulla pelle di gente che conosco molto bene.

C’è anche un sito italiano che ho trovato il quale sembra interessante, si chiama http://www.sognilucidi.it/portale/ , sembra ben fatto ma non garantisco, l’ho trovato da poco. Ho sempre paura di quella derive new-age filo-superstiziose che invece di donare libertà ne tolgono, portando sulla tortuosa strada in discesa del fanatismo. (ehi ma tu...)
C’è anche una pagina di wiki in inglese, http://en.wikipedia.org/wiki/Lucid_dream , ed una un po’ meno esaustiva in italiano http://it.wikipedia.org/wiki/Sogni_lucidi .

Le cose che più mi piacerebbe riuscire a compiere sognando lucidamente nel futuro sono, e qui è vietato ridere: -trovarmi in sogno mentre dormo nel mio letto
-cercare determinate persone nel sogno, e vedere se è possibile o fantascientifico il cercarsi reciprocamente in sogno (sembra possibile da alcune ricerche di lucidity)
-(qui si va nel fantastico vero e proprio) provare in sogno a modificare oggetti nella realtà (lo so non ci credo neanche io, ma perché non provare? E se Castaneda avesse ragione?)

Tra l’altro, anche nel buddismo Vajrayana a quanto mi risulta vengono utilizzate tecniche di sogno lucido, e questo aumenta ancora la mia curiosità, anche se da buon estimatore di zen non credo in tecniche particolari per raggiungere l’illuminazione, anzi come dice Dogen, forse non c’è nemmeno illuminazione.

Al buon lettore..

lunedì, giugno 12, 2006

Reclaim the streets 2006!




E’ una tranquilla sera di mezza estate quando, armato del giusto spirito sovversivo, passo a prendere Lele a Mondovì. La destinazione è un luogo semisconosciuto di Torino. Partiamo, belli e dannati. Stasera si fa la rivoluzione. E noi non mancheremo.
Il primo inconveniente istituzionale viene oramai a Torino, in una tappa intermedia per prendere due amici rivoluzionari. Uno arriva, l’altro tarda. Lo precede la polizia.
-Documenti- e si chiudono dentro.
Il nostro antagonismo sale.

Intanto perdono cinque minuti dietro quel pezzo di carta che ci identifica e di etichetta agli occhi dello Stato proteiforme che tutto permea e che sguinzaglia i suoi mastini per fare sì che l’ordine venga tristemente e rigidamente rispettato anche a scapito della felicità, pezzo di carta rappresentato in quella sede dalla carta di identità del Lele, sfogliata con occhi assatanati dalle tute nero-blu manco fosse una rivista porno..

E il nostro antagonismo sale ancora.

-Dove andate ragazzi?-
-Mah, pensavamo di fare una capatina ad un raduno di arrampicata sui palazzi, ovviamente abusivo, per riprenderci le strade e la nostra libertà!-
..mi balena in testa, ma: -Niente, aspettiamo un nostro amico di Torino, per uscire un po’-
-Dove?-
-Eccheccazzovenefrega?- ma ancora mi trattengo
-Murazzi- dico, con aria fragile.
(le risate..)
-Buona serata, ragazzi, e fate attenzione giù ai Murazzi-

E si va, accontentandosi di fare la figura dei tre barotti cuneesi in cerca di divertimento facile nella grande città, vestiti di cenci da montanari. Meno male che non hanno visto i crash pad.

Ora siamo pronti all’atto sovversivo.

Quanti saremo? 100? 150? 200?
In un attimo siamo attaccati a giochi per bambini, cartelloni per la pubblicità, muri cadenti ed addirittura fontane. Divertente, sì, divertente, e curata l’organizzazione, con mappa dei blocchi (tantissimi, impossibile provarli tutti in due ore), maglietta, informazioni accurate..
Forse è un po’ dispersivo, ma in fondo che si vuole, più ordine? Ma per piacere… Da ricordare il cartellone di quattro metri e mezzo, il lancio storto alla finestra, la rimonta del tubo del gas, il lancio impossibile sullo spigolo dove ho lasciato due etti di pelle con le dita a perdere nei fori dei mattoni.
Tre i settori, tantissimi i passaggi, bell’entusiasmo generale. In giro per le strade di Torino con i crash, chi l’avrebbe mai detto?
La finale è il punto d’incontro, di aggregazione di questa massa pulsante, ed anche se io appena la vedo mi metto le mani nei capelli (aaaarrggghhh.. una placca!) abbiamo la sorridente Anita Manachino che la toppa per prima, portando a casa la prima vittoria ad uno SBC di una donna. Finalmente un po’ di vero potere al femminile! Emma Goldman sarebbe contenta.

Tutti acclamano, la serata SBC finisce al pub, mentre io ed il compare inforchiamo la strada a pagamento col pedaggio che aumenta sempre di più alla faccia dei taxpayer, e torniamo sui nostri monti, così alle due e mezza davanti ad una birra sentiamo che è bello riprendersi la città, anche se la città non è nostra, noi non ci viviamo, rudi montanari quali siamo, e nonostante sulle rocce nude e dure siamo più felici forse questo è un bel momento, c'è un vero movimento, tutti insieme a scalare due muri con sopra scritte sovversive, sperando che il nostro ego non crei ulteriori gerarchie, anche all’interno del nostro spazio dedicato al divertimento.
Il bello è stato essere là, tutti uguali davanti ad un muro, ad urlare non slogan –anche se un po’ mi sarebbe piaciuto-, ma solo incitazioni, per poi buttarsi a provare, il tutto con un minimo comune denominatore da favola, l’arrampicata.
Che per definizione è anarchica, e le regole le scegli come vuoi.

jerome

giovedì, maggio 04, 2006

Polvere e pagine strappate - Racconto


Seicento meno duecentocinquanta uguale trecentocinquanta. Trecentocinquanta diviso trenta fa poco meno di dodici euro al giorno. Tirando la cinghia ce la posso fare.

Questo fu il primo pensiero che mi balenò quando misi piede nella casa. Certo avrei dovuto fare attenzione ai controllori sull’autobus, ma se avessi sottratto altri quarantacinque euro di abbonamento mensile me ne sarebbero rimasti qualcosa come trecentocinque, quindi due pasti al giorno con dieci euro.

Il trovare quel lavoro, in uno dei più frequentati cocktail bar della città, sottopagato quanto basta ma sufficientemente sicuro e stabile non aveva prezzo. Il restituirmi la mia dignità di uomo, essere unico, solo ed indissolubile, con la sguardo rivolto all’orizzonte.

Ero fuggito da una città ancora più grande, grande abbastanza da sembrare di non finire mai se non quando tutti vogliono che finisca, quei primi giorni di agosto quando tutti si mettono in viaggio per dove non importa ma andiamo via, la città da cui ero fuggito mille e mille volte con l’unico sorriso che avrei voluto accanto. Stringendo mentre guidavo l’unica mano che mai avrei voluto stringere. La donna che mai e poi mai avrei potuto dimenticare.

Per quante sere volli pensare che lei fosse ancora viva, e cercai di immaginarmela con gli occhi neri e le ciglia lunghe che guardavano il mondo con l’innocenza di un infante, dimentiche di tutto il passato, dimentiche di me, per qualche assurdo incantesimo malvagio, o semplicemente per un gioco sadico del destino. Qualsiasi incantesimo migliore di una lapide gelida in un cimitero, una lapide sulla quale non avere nemmeno il coraggio di piangere, sospirare e gettare improperi al cielo, così per tutti i giorni della mia vita.
Ed io fuori da quel maledetto cancello nero, orario di apertura dalle otto alle diciannove, tutti i giorni compresa la domenica, non c’è vacanza nel regno dei morti.

Quello che era morto in compagnia di lei era l’amore, perché dentro di me non ci sarebbe più stato spazio per sorrisi e commozione, per ammiccamenti e serate in perizoma. Non senza lei, andata via per sempre, salutandomi gentilmente e con quella maledetta bastarda ombra che accompagna chi sta per morire. E che noi vediamo solamente nei nostri ricordi, dopo la scomparsa.

Celebrai il funerale della mia capacità di amare una donna, la cerimonia di addio alle illusioni, l’ultimo saluto di quella città grande grande ma troppo piccola per la mia tristezza.

E mi ritrovai in una città molto più piccola, vuota ma efficace per rimarginare parte delle mie ferite, perlomeno quelle indispensabili per parlare con gli altri, quella città col centro storico troppo caro per poterci vivere, quella città con quei locali così trendy, vecchi e nuovi allo stesso tempo, vivi della storia che si fonde con uno sguardo profondo ed immancabile ad un futuro gravido.

Quella città in cui lei era troppo lontana per esistere, ed io troppo occupato a mangiare due volte al giorno con meno di dodici euro, impomatandomi la sera per poter sembrare l’ultimo di coloro che lavorano solamente per essere al centro, al centro di una movida che centro non ha.

In quella casa vecchia, a quarantacinque talvolta più minuti e due autobus dal mio bancone, dallo shaker, dalla consolle che spara deep house con la sola missione di annebbiare i sensi e liberare le menti nelle sere in cui bisogna, è necessario divertirsi.

Vivevo al primo piano, in mezzo ad orti e nuove case, in una villetta cadente costruita da contadini quando ancora si pensava che la città mai avrebbe potuto avere una periferia, e tanto meno una cintura. Una casetta anomala, piccola, bassa, con un piano terra adibito a grande ripostiglio di oggetti non miei. A magazzino. A pattumiera. Questo è quello che pensavo prima del giorno in cui trovai i libri.

Libri, libri su libri su libri su libri, decine di autori e chilometri di polvere, testimonianze di una vita passata, superata, sfogliata nelle sere d’inverno. Fui tramortito da tanta cultura. Io avevo rinunciato a studiare molto presto, assorbito nella vita di chi proprio una casa non la vuole avere, una casa in cui restare fermo a leggere per ore.

Ora così, senz’altro domandare, mi trovavo ad avere una ricchissima biblioteca, ricca di polvere e di pagine strappate, anche se il giallo della carta mai avrebbe cambiato di una virgola il contenuto di quelle scatole delle magie.
E allora cene saltate per leggere, immerso nell’astrazione degli acari, costruendo il mio linguaggio e la mia mente, serate a lavoro interpretate col disgusto dei maestri della beat generation, annaffiando il tutto con una maledetta voglia di vivere, ed annacquando il mio entusiasmo col ventoso empasse di chi ha sofferto, a cui la morte ha fatto visita in passato per saldare il conto coi sentimenti.

Vedevo lei ad ogni passo, viva sorridente e leggiadra, ma sempre più leggendola al buio della disillusione che solamente Schopenauer può fornire, o con l’ombra adagiata sul cuore a cui una partecipe lettura di Montale non può non condurre, conducendoci per mano sul mar Ligure.

Mi accorsi che il mio misterioso predecessore aveva gusti rivoluzionari, così mi immersi, chiuso il conto quotidiano col bancone, in una consapevole lettura del Capitale e delle opere di Marx commentate, per risvegliarmi poche ore dopo con le poesie di Garcia Lorca e di Rafael Alberti, e passai ore ad immaginarlo in fuga da covo a covo, seminando parole di libertà e di rivoluzione. Riuscii addirittura a sentirmi parte di un movimento, nonché l’anima ed il bibliotecario di una sollevazione prossima ventura, sopra le rovine di un mondo ormai logoro.

E lui, l’inquilino, fuggito in fretta dalla casa, la casa in cui aveva coltivato le sue radici sovversive, la casa nella quale aveva progressivamente tagliato i fili che lo legavano all’autorità, agli altri e a Dio stesso. Poesia, prosa, commedie, saggi politici, guide su guide turistiche. Divisi tutto in pile separate, alternando in mano mia romanzi, sillogi poetiche e saggi, e sentendo in me crescere il coraggio. Coraggio di affrontare la vita con la sfrontatezza di un Rimbaud, con la stravaganza di un Oscar Wilde, proprio io che mi ero sempre atteggiato come colonna portante del dolore, ovviamente dopo la scomparsa di lei.
L’angoscia di essersi aperti all’amore, e trovati vulnerabili alla morte divenne un sogno di una notte di mezz’estate.

Fino a quando non ce la feci più, e con la fortuna che un tardo pomeriggio primaverile sa concedere mi feci dire dalla anziana madre del proprietario chi aveva abitato quella casa in passato. Chi era il cospiratore, l’ultimo uomo libero, il poeta coautore della mia vita. Ed ebbi un nome.
Ebbi un nome, e presto anche un indirizzo. Non si era quindi dato alla macchia, il maestro…

L’ansia di conoscere, di avere una guida. Il sapere con esattezza che noi non siamo nulla, ma un saggio può condurci al di là del conoscibile, in quella terra di nessuno che è la libertà. La pila dei romanzi era sicuramente la più alta, una torre di Babele di fantasia e conoscenza che rasentava il metro e mezzo. Dovetti dividerla in due, e ben presto la mezza pila dei libri letti superò quella delle mie pagine future. La pila delle guide turistiche sì, quella rimaneva le più polverosa.
Una sera impiegai un paio d’ore a rimettere a posto un saggio del pensiero di Sant’Agostino. Gli feci ritrovare un ordine. Con del nastro adesivo riacquistò una vita propria, ed io la succhiai goccia dopo goccia.

Leggere tanto ti cambia. Ti catapulta nella vita reale in maniera prosaica, finché tutto diviene l’episodio di un racconto. Il litigio di due fidanzati al pub, la rissa tra spacciatori nell’angolo di una piazza settecentesca. Un soggetto strano che parla ad alta voce da solo sul bus. La mia storia, la storia della mia perdita divenne il pezzo clou di un libro di memorie. Le luci della città furono un affresco su di una guida turistica, o la descrizione subitanea di un prigioniero in esilio. Il tutto raccontato per incisi, soffermandosi su particolari, lettere nere su di un foglio immacolato. Enfatizzato, perché la realtà va a braccetto con la noia. L’estensione del mio battito cardiaco.

Fino al paragrafo in cui la storia svelò i suoi connotati, pioveva ed io mi trovai solo dinanzi al cancello nero di una villetta. Decisi di non entrare, ma nulla mi impedì di spiare tra le siepi. Il mio maestro era lì, come la scena di un telefilm che non c’entra nulla con la vita, in cui il buon padre di famiglia spinge uno dei suoi due bambini sull’altalena, poi si volta, risponde al cellulare, contratta animosamente e prende un foglio dalla sua Mercedes nera. Non c’era più nulla della letteratura socialista, dei romanzi beat, della rivoluzione imminente e consapevole. Solamente polvere, polvere nelle mie mani.

Fu un dramma. Non avere un maestro è un dramma. Non avere più con me il maestro. Solo, nuovamente solo, in una vecchia casa. L’ultimo atto di una tragedia. Prima di capire che in realtà un maestro altro non è che la materializzazione del fantasma di colui che ha vinto le nostre paure. E quando ci si ritrova di fronte alla morte, allora si sta rinunciando a tutto, quindi tra il farla finita ed il ricominciare non v’è differenza alcuna. Ed anche se il mio mentore era un dirigente di banca, in realtà io rappresentavo la libertà, il non avere nulla e il non attendersi nulla, nonché l’assecondare chi mi parlava con trasporto di ciò da cui non avrebbe mai potuto prescindere. Giunsi a pensare che ognuno adorava le sue catene ed io, accidentalmente senza guinzaglio, fungevo da involontario baluardo dell’isola senza autorità.

Portavo con me metri e metri di libri, polvere e pagine giallognole in grado di far detonare sezioni cerebrali assopite da drogaggi lenti ed inesorabili opera della quotidiana sopravvivenza, e smisi di fuggire. Shakeravo cocktail sotto luci patinate, intense ed estemporaneamente vuote, fino a quando un fuoco fatuo mi urlò addosso, e fu un morso che spremette lo stomaco e lacerò l’intestino, una frattura nel centro nevralgico del mio cuore.

Lei non era morta, ma il suo era stato un tragico atto di scelta: lei aveva abbandonato me ad un destino bizzarro, sputando dietro di sé, nell’unica direzione in cui potevo seguirla, un fiume ghiacciato, costituito da un’impercorribile indifferenza, lasciandomi nudo, nel cuore e nell’animo, esposto alle intemperie angosciose del mondo. Per correre lontano con un altro uomo. Ed io, solo, non potei altro che pensare lei, morta, nella terra che l’avrebbe consumata, lentamente e senza pausa alcuna, nei secoli e nei millenni.

Ma quel giorno splendeva un nuovo sole, per quanto composto di luci chimiche e di musica assordante, con un nucleo vivo di pagine e pagine di storie, riflessioni, deduzioni, impilate nella mia cantina e nel mio lobo temporale. Per darmi una vita vera, ben lucidata, trasparente. Come gli occhi di colei che stavano incrociando i miei, a pochi metri, quando protetto dal bancone lasciai che il presente ed un improbabile futuro mi illuminassero e riuscissero a saziarmi.

martedì, aprile 04, 2006

Intervista a Rocco, il mio cane. Argomento libero, in luminoso pomeriggio di marzo. Parte 2


P- Esattamente. Cosa pensi, da animale non vittima di macellazione, della scelta di non nutrirsi di animali?
R- Beh, innanzitutto esistono mille tipi differenti di macellazione. Abbandonare un cane per strada dopo che ha vissuto tutta la sua vita con degli umani è lasciarlo alla macellazione, ad esempio, la fagocitazione da parte di una società “dell’ usa e getta”.
Per entrare nello specifico della tua domanda, in realtà ogni scelta dettata dall’amore e dal buon cuore delle persone è una scelta da ammirare. Se voi esseri umani potete vivere tranquillamente senza la carne, così come possiamo noi cani, e potete scegliere di non nutrirvi di carne, perché nutrirsene allora? Io personalmente continuo a non capire questa differenza tra animali “commestibili” e non, fa parte di un retaggio culturale, differente in ogni società, ma se qualcuno vuole vedere qualcosa di assoluto in questo allora cade in errore, classifica, forma gerarchie, ricade nel modello antropocentrico di cui parlavamo prima, ovvero l’uomo al centro e tutto il resto che gli gravita attorno: noi cani che gli gravitiamo attorno su di un’orbita particolarmente vicina, le cosiddette bestie da macellazione un po’ più lontane, gli insetti ancora più lontani..
Con questo capisco benissimo un essere umano che cacci per sopravvivere, che cacci per sfamare sé stesso e la sua famiglia, ma la vostra società è così complessa che modelli così semplici non esistono più. E’ tempo che si comprenda la parità tra tutti noi animali, la parità tra noi animali e l’animale uomo, tra l’uomo ed ogni singola cosa sulla terra. Questa secondo me può essere evoluzione.
Ho fame, tra l’altro, e penso che dopo questa intervista mi spetti di diritto almeno un biscotto..

P- Questo è sicuro. Ma ti chiedo di pazientare ancora. Tocco l’ultimo, grande argomento: tu credi in Dio?
R- Aspettavo qualcosa del genere. Con tutto il rispetto per voi uomini, io non comprendo ciò che voi intendete con il termine Dio. Ma butto lì qualche supposizione.
Non è sufficiente forse questo mondo meraviglioso, ma anche le piccole cose di ogni giorno, nonché il voler bene, e con questo semplice termine intendo l’apprezzare veramente ogni dettaglio del mondo, per gioire ed essere felici? Forse tutto questo non potrebbe essere un buon Dio? Attenzione non essere opera di un buon Dio, ma essere realmente qualcosa che può essere chiamata essa stessa Dio?
Io penso che l’idea di Dio come qualcosa di superiore, superiore a tutto e all’uomo stesso sia figlia del modello che ho criticato prima, e che riprendo per l’ennesima volta: l’uomo al centro, tutto il resto attorno a lui, in rigorosa gerarchia. Ma l’uomo si accorge ben presto che non è onnipotente, che per quanto abbia molti mezzi non possa tutto, ed allora, abituato a classificare, ad appunto gerarchizzare, crea qualcosa sopra di lui, qualcosa che invece non ha limiti, qualcosa da adorare e di cui avere paura. Invece di cercare di mettere tutto alla pari, insiste con il creare scale e scalette di importanza.
Non solo. L’uomo si crea tutto, si crea un mondo complesso attorno a sé, un mondo con sempre più cose. Non è solo lui, l’uomo, ma è anche in quanto ha un nome, un lavoro, una posizione sociale, una bella casa, un’auto potente. Noi cani non abbiamo nulla, nulla se non noi stessi, solamente possiamo o meno avere l’amore di chi ci sta attorno, e che noi diamo senza pretendere nulla in cambio. Ma in realtà cosa possedete realmente voi uomini, cosa avete che non potrete perdere mai se non voi stessi?
Quello che intendo dire è che più cose hai, più ne vorresti trasportare con te dopo la morte. E non parlo solamente di beni materiali. Agire in un determinato modo, anche costruttivo socialmente, per molti uomini è un atto dovuto per acquisire una posizione privilegiata anche dopo la morte, non semplicemente il modo migliore di agire per fare sì che il numero maggiore possibile di esseri possa sperimentare un’esistenza felice già qui, già nel presente.
L’agire una intera vita dando per avere, agendo per conseguire qualcosa in questa vita porta a pensare che anche questo sia l’atteggiamento da tenere nei confronti della morte e di colui che sta sopra anche alla morte stessa, cui si dà il nome di Dio. Un comportamento del genere è solamente un’espressione tipica dell’avidità, una caratteristica tipicamente umana.

P- L’avidità, già, altro grande problema di cui parlare.
R- Anche questo problema tipicamente umano; certo, noi siamo avidi quando mangiamo, avidi di cibo, quanto è bello mangiare! Ma una volta che ho finito sono felice, non voglio nient’altro. Voi invece vi caricate, vi caricate di cose attorno, con che risultati poi? Paura, odio, frustrazione..

P- Quindi tu ti senti di dire che non credi in un creatore? O in qualcosa dopo la morte?
R- No, mi sento di dire che l’esigenza anche solo di cercare un creatore è tipicamente umana.
Perché bisogna fare differenza tra creato e creatore? Perché? Non possono essere la stessa cosa? Il tutto non può semplicemente esistere e basta? Non è già meraviglioso così? Questo qualsiasi cosa possa accadere dopo la morte. In fondo tutto ha un inizio ed una fine, e l’uomo non pare proprio accettarlo. Basti solamente osservare la differenza nell’accettare il dolore tra un uomo ed un cane. Un cane soffre silenziosamente, in un angolo, accetta la sofferenza come una condizione naturale, inevitabile, ed accetta anche la fine senza alzare la voce.

P- Molto interessante questo spunto. Un'ultima cosa sul discorso religione: molte tue idee sono vicine ad alcune idee buddiste, lo sottolineo da persona che ama studiare e tentare di praticare il buddismo. Come forse tu non sai alcune scuole buddiste sostengono la possibilità della reincarnazione dopo la morte, ed anche del passaggio tra specie, come un cane che si reincarna uomo e viceversa. Ti piace come idea?
R(scodinzolando)- Mah, ora un po’ fame e riflettere su questi argomenti complessi mi risulta un po’ difficile. Inoltre penso, perché chiederselo ora? Magari sì, qualcosa di noi viene conservato dopo la morte, e torna a vivere.. Magari solo qualcosa.. Fatto sta che se dovessi reincarnarmi uomo mi piacerebbe conservare una parte del cane che sono..
Il fatto è che alla base di questa idea c’è sempre una concezione di tempo assoluto: nasciamo, moriamo, ci reincarniamo, ri-moriamo, ed intanto il tempo continua a passare, da un inizio ad una fine. Come ho già detto questo bisogno incredibile di un inizio ed una fine e la paura stessa associata alla fine è tipicamente umana. E se morendo trascendessimo anche l’idea di tempo? Se non ci fossero più un prima ed un dopo, un inizio ed una fine?
Ti lascio con questa domanda.

P- Sei stato fin troppo paziente e gentile, ora è tempo di merenda.
R- Meno male!
(e galoppa fino alla sua ciotola)


paulo

lunedì, marzo 27, 2006

Intervista a Rocco, il mio cane. Argomento libero, in un luminoso pomeriggio di marzo. Parte 1


P- Bene, ho talmente tanto da chiederti che non saprei da dove cominciare.. Partiamo dal semplice: sei soddisfatto della tua vita?
R-Certamente. Mi piace, mi diverto, vivo con delle persone che adoro, e per quanto ogni tanto ci siano dei problemi, di cui molte volte mi sfugge la natura, sono entusiasta della mia vita, sì.

P- Allora cominciamo a spingerci verso le domande scomode: non ti manca la libertà, quella vera, che va oltre il guinzaglio, oltre la legge del bastone e della carota?
R- Questa è bella.. La verità è che non saprei risponderti, non saprei risponderti perché in realtà non so cosa sia questa libertà. Sono un cane, ed i cani hanno sempre vissuto con gli uomini. Faccio parte di una specie, specie la chiamate voi, e non solo anche di una razza creata dall’uomo per alcune sue esigenze, come cacciare, una razza inoltre sfruttata con tutta la malignità di cui l’uomo è capace, anche se con uomo ovviamente non mi riferisco a tutti gli uomini. Se mi chiedi se mi piacerebbe la libertà, ti dico sì, adoro correre libero dal guinzaglio, seguire gli odori, ed adoro quando voi mi lasciate libero di farlo. Ma non so se potrei vivere così. Libertà significa solitudine, almeno per me significa quello, solitudine dall’uomo che, volente o nolente, ha la responsabilità di avere reso il cane il suo migliore amico, e di averlo sfamato, in cambio di lavoro o anche solo di amore. Vivere con l’uomo, anche a scapito di un briciolo di libertà, è il nostro destino, la nostra strada, ed è tempo anche che l’uomo si prenda le sue responsabilità ed usi tutto il rispetto che ci è dovuto, non in quanto cani ma in quanto esseri che come lui vivono sotto il suo stesso cielo e calpestando la sua stessa terra, e non solo, esseri che sono legati a doppio filo con la sua esistenza, dalla notte dei tempi.

P- Ti ringrazio, hai toccato due punti molto importanti, a cui prima o poi sarei voluto arrivare anch’io. Tanto vale anticiparli subito. Per primo, tu sei un beagle, e penso tu sia a conoscenza di tutte le sperimentazioni che vengono effettuate sulla pelle dei beagle, in quanto reputati cani indistruttibili. Il secondo punto, intessuto al primo, è proprio il rispetto scarso che l’uomo ha della natura che lo circonda. Vuoi approfondire questi punti?
R- Sì, e mi aspettavo che me lo chiedessi. In quanto “rappresentante” della natura come la chiamate voi, in quanto cane, in quanto beagle. Innanzitutto non mi piace di quando si parla dell’uomo e del suo rapporto con la natura. Non esiste l’uomo e tutto ciò che è artificiale da una parte, la natura e tutto ciò che viene chiamato naturale dall’altra. L’uomo, che lo voglia o no, è parte della natura stessa. E tutto ciò che da lui viene è pure parte della natura stessa. La contrapposizione uomo-natura viene da una concezione che vede la razza umana al centro di tutto, una posizione antropocentrica direste voi. L’uomo è al centro del creato, e la natura è il contorno, l’insalata, ciò che l’uomo ha a disposizione nella sua folle corsa verso chissà dove e mi dispiace ma in questo momento mi viene da pensare solamente verso la distruzione. Senza capire che distruggere la natura è distruggere sé stesso. Ma sto dicendo ovvietà.
La cosa importante è che, secondo me, questa è una concezione da superare, a mio avviso, in quanto è questa idea malsana che porta l’uomo a fare, fare, fare, sfruttare, senza chiedersi nemmeno per un momento verso dove stia andando. In realtà basta così poco: fermarsi, o rallentare; apprezzare il presente, l’amore, verso i suoi simili, verso i cani, verso gli altri animali, verso tutto il resto. L’amore per una montagna, l’amore verso un cane, l’amore perché no, verso una piccola noiosa mosca. Tanto siamo tutti qui, e tutti alla pari, che dir si voglia, perché tutti viviamo un battito d’ali e poi moriamo. Pensa al tempo, a tutto il tempo che è esistito ed esisterà: ai miliardi di anni passati ed ai miliardi di anni che passeranno: forse c’è differenza tra gli ottant’anni di un uomo, i venti di un beagle, la settimana di vita di una farfalla?
Se l’uomo la smettesse di correre, e cominciasse a correre un po’ in un prato verde giocando con il suo cane, non ci sarebbero deforestazioni di sorta, effetto serra –che mi devi spiegare ancora esattamente come avviene-, e nemmeno sperimentazioni selvagge sui beagle.

P- Mi è piaciuto il tuo discorso, si vede che ci metti passione, e penso che in tanti dovrebbero ascoltarlo. Solo non tutto è semplice come appare. Il tuo discorso porta verso il mito del buon selvaggio, e forse, detto da un uomo, sminuisce un po’ le grandi conquiste della mia specie, e qui non parlo solamente di conquiste materiali, come lo stile di vita che l’uomo è stato in grado di acquisire, le invenzioni partorite nel corso dei millenni, ma anche e soprattutto culturali. Quello che rende la mia specie, e qui non vorrei essere frainteso però, così “evoluta” rispetto alle altre, così in grado di analizzare il mondo che gli sta intorno, di classificarlo, di fare congetture riguardo all’inconoscibile. Cosa ne pensi a proposito?
R- Penso che sia un discorso giusto, fatto da un uomo, ma che non smonti in minima parte il discorso fatto da me riguardo al fatto che l’uomo dovrebbe “rallentare” la sua corsa verso lo sfruttamento. Tu mi parli di conquiste materiali, quando mi pare i due terzi della popolazione umana non li abbia a disposizione. Mi parli di conquiste culturali, ma quanti ne hanno accesso? E non è anche una conquista culturale quella di rendersi conto che non si è al centro del mondo, ma che bisogna fermarsi e lavorare per permettere che tutti abbiano accesso almeno minimamente ad una vita più agevole?
Ma non solo, mi parli di queste grandi conquiste culturali ed intellettuali, ma allora perché l’uomo, tanto evoluto, non ha ancora capito nulla del suo cervello? Perché gli basta così poco per cadere in depressione, o per compiere ogni genere di atrocità? Non ti sembra che abbia lavorato un po’ troppo in una direzione sola, ovvero verso l’esterno, verso la conquista di tutto ciò che ha attorno, tralasciando ciò che è interno, ovvero la sua sensibilità, verso la natura e quindi anche i suoi simili, la comprensione di sé stesso, che poi null’altro è che la sua felicità?
E fai attenzione, non stavo dicendo con il discorso precedente che l’uomo dovrebbe ritornare ad essere nulla più che un buon selvaggio, ma solamente fermarsi, guardarsi attorno, rinunciare a qualcosa, gradatamente, per fare sì che un riequilibrio avvenga piano piano, e senza catastrofi come altrimenti avverrà.

P- Ti ringrazio. Molto interessante la tua analisi. Prima di cambiare argomento, siccome la tua idea del riequilibrio e delle piccole rinunce mi dà un appiglio per affrontare un altro punto importante dell’intervista, ti volevo domandare una piccola cosa: cosa ne pensi degli umani che scelgono il vegetarianismo?
R- Mmmm… dunque, vuoi chiedermi se la loro scelta va nella direzione di cui abbiamo parlato prima?

giovedì, marzo 16, 2006

La differenza.


Sapete cosa fa la differenza? Sapete cosa vi butta dal paradiso all’inferno in meno di cinque secondi sola andata? Cosa vi può far capire che quelle che avete pensato fino ad ora sono solo nientepopodimeno che autentiche cazzate? Che l’aumento di stipendio di contratto l’automobile nuova il film che non vi piace una tipa che non ci sta la partita di calcetto persa ingiustamente sono tutto quello che si può definire spazzatura?
Che la paura di essere un fallito un uomo debole incapace di imporsi nervoso che non riesce a calmarsi che ha delle belle idee ma non riesce a seguirle che non riesce ad aumentare il suo sex appeal insomma tutte le paranoie di questo mondo andata e ritorno in realtà sono solo ridicoli viaggi di piacere niente di più, e non solo, anzi esiste un treno che ci può portare a casa è solo questione di accomodarsi ed aspettarlo e non cercare di sprofondare nel baratro quando non arriva anche se ha un ritardo indefinito..

Magari mi risponderete la differenza è svegliarsi la mattina con un mal di stomaco atroce che poi passa ma ritorna e poi passa poi ritorna quindi si scopre che si ha un cancro alla bocca dello stomaco in fase avanzata con poche possibilità ma ne rimane qualcuna basta sottostare a cure allucinanti ed entrare in un vortice disperato allora in quel momento forse si comprende che il treno di ritorno potrebbe non passare più e tutto è sfumato da un momento all’altro e magari siamo pure soli. Troppo deboli per affidarci a delle cure alternative del tipo è tutto nella tua mente oppure bevi la tisana magica della nonna supernonna e tanto impauriti quando si tratta di iniziare una terapia che sappiamo ci devasterà ed il suo esito si conosce a priori solo in termini di probabilità variabili quindi non si conosce.

Bene questo è il pensiero che mi salva.

Perché in realtà io non ho un carcinoma con tanto di metastasi in due o tre organi diversi ed una lista di dottori da cui andare per sentirmi citare diverse proiezioni di percentuali di sopravvivenza ed elenchi di medicine e pacche sulle spalle. Ma sono solo ugualmente. Mi salva il fatto di sapere quello che non ho. E che non vorrei mai avere.

Perché nessuno è perfetto. Solamente qualcuno è più sfortunato.

Questo qualcuno magari è così sfortunato da inforcare la macchina stressato una mattina dopo non aver chiuso occhio per il nervosismo, più sorella gastrite che manda un male lancinante ed il tuo spirito guida che ti dice calmati ed il tuo spirito calmo che ti dice guida. E allora guidi ma proprio non ce la fai a guidare piano, a non mandare affanculo chi non ti dà la precedenza che ti spetta, a non mandare affanculo chi ti manda affanculo dopo che non gli hai dato la precedenza che gli spetta ma mancano dieci minuti poi entri in ritardo a lavoro e non oggi, non oggi che sono pieno di cose da fare. E pensi ho proprio bisogno di andare ad uno di quei gruppi di meditazione collettiva se no non ce la farò mai a calmarmi, e mentre lo pensi la macchina fa i settantacinque all’ora, sei in città ed un vecchio sulle strisce pedonali attraversa proprio lì davanti a te, proprio in quel momento perché se avesse fatto colazione due minuti dopo o non l’avesse fatta o se avesse avuto voglia di farsi una settimana al mare in tranquillità in queste belle giornate di sole o se avesse deciso di andare in pensione qualche anno dopo tu non l’avresti tirato sotto, lasciando sulle strisce bianche un ritratto di sangue ossa ed organi interni e non saresti un maledetto assassino senza scrupoli con una vita da fallito alle spalle.

Magari avresti un bel curriculum di fallimenti ed un bel carnet di aspirazioni che non realizzerai mai ma che devi avere per essere in regola e sentirti anche tu parte costituente ed essenziale di questa meravigliosa maledetta società occidentale dove cosa importa come ti senti tanto ci sono gli psicologi ma quello che importa è quello che fai.
Ciò che diventi e, non dimentichiamocelo mai, quello che hai in mente di diventare, ovvero quello che ti stacca da questo stupendo inutile presente che inizi ad apprezzare quando sono dieci giorni che corri in macchina di cui otto su di un’auto rubata e cominci a pensare che dopo avere perso sette chili ed avere cinquanta grammi di barba in più e dopo avere svalicato almeno quattro volte quattro confini diversi magari non ti prenderanno, magari esiste questa possibilità, anche se tu di colpo sei il male, per quanto tu abbia sempre pagato le tasse. E non parlatemi di attenuanti generiche o stronzate simili. Io non sono un politico.

Quando inizi a conoscere le persone senza pensare se guadagnano più o meno di te, anche perché ora quello che guadagni è quello che tiri su se rivendi hashish ed erba o riesci a rubare a due turisti spensierati. Chiedendo loro scusa, ovviamente,e cercando solo quelli abbastanza ciccioni da sapere che non ti salteranno addosso disarmandoti da quel coltello arrugginito e lasciandoti con la faccia insanguinata per terra.

Ma la questione è proprio questa. Esiste qualcuno così potente da decidere che la mia vita non va bene e devo cambiarla d’improvviso, nonché tentare ogni giorno di finirla lì? Qualcuno decide che sono io quello sfortunato?

Di colpo io sono un assassino e non più un agente immobiliare, di colpo non merito più un aumento ma la galera per aver investito un povero pensionato sulle strisce ed averlo solamente ammazzato. Il sistema decide di punirmi, io so che merito di essere punito, ma proprio non ce la faccio a pensarmi recluso io che dormo con le finestre aperte anche il quindici di gennaio quando ci sono meno cinque gradi di temperatura massima e Dio solo sa quale sia la minima.
Perché non è sufficiente che la mia punizione sia il terrore giornaliero di prendere in mano un volante anche se ora devo farlo per sopravvivere per continuare a scappare e non riuscire a dormire ogni notte senza sognare per almeno due o tre volte l’attimo critico, la catastrofe, il momento in cui la mia vita si è trasformata in una lotta quotidiana contro me stesso.
No, questa personale punizione non va, allora ti ritrovi a scrivere una lettera in cui lo spieghi alle autorità che ora odi ed a tutti quelli che ti conoscono e che ora non sanno se odiarti in cui dici che hai fatto una grandissima mirabolante cazzata e sei pentitissimo anche se in quel momento stavi pensando ai centri di meditazione buddisti in cui ti saresti potuto rifugiare il mercoledì sera ed il venerdì mattina per trasformare questa tua energia negativa e la fottuta gastrite in voglia di vivere e ricongiungerti con l’universo.
E così, cari tutti, ho deciso di scappare. Avendo sempre cura di tenere con me un qualcosa che mi permetta di uccidermi se mi prenderete, perché proprio non ce la faccio a pensarmi rinchiuso in cella.
La mia condanna sarà di essere sempre in fuga.
E così tre anni dopo può capitare che tu conviva con un commando di guerriglieri in un paese povero, con null’altro che un rancio giornaliero, girando per villaggi e cercando di renderti utile insegnando qualcosa ai bambini dei rifugiati, studiando l’attualità e dedicandoti ad un dovuto revisionismo storico, e capendo ancora una volta che non hanno fatto altro che prenderti per il culo, per tutta una vita.

10 Marzo 2005

lunedì, marzo 13, 2006

Il dilemma del credere - riflessioni


E' un sacco che non aggiorno il blog, mo' lo faccio..
Cinque stelle è andato avanti, anche se è un po' arenato. Alcuni dilemmi mi trafiggono, quindi finché non ne risolvo almeno i due terzi resta lì crocifisso a mezz'aria. Tanto non patisce.

Ho scritto un nuovo racconto, lo pubblico appena ritrovo la penna USB. Mi ritrovo sempre avvolto in atmosfere un po' oscure quando scrivo ultimamente, anche se la mia vita di ogni giorno non è impantanata nel lugubre come potrebbe sembrare. Ovvio che non credo in entità superiori nel libero mercato nelle scappatoie dalla realtà nella realtà stessa nell'amore eterno nella vita dopo la morte nella democrazia e ad un sacco di altre favolette..

No dai, non sono così messo male..
Magari credo, diciamo forse un pochino nell'accettazione incondizionata in una birra tra amici nell'amore stupendamente temporaneo in chi non ti impone di credere, nella relatività dei risultati in una tazza di té verde nella morte nell'umana paura di morire nello sguardo puro del mio cane nella primavera che ci porterà via questo freddo e noioso inverno. Crederò per sempre negli occhialoni di mio nonno in chi ha pianto di gioia quando mi sono laureato in chi mi ha ringraziato per averlo ospitato in chi ha accettato i miei ringraziamenti quando mi ha ospitato in chi mi ha detto parole dure ma sincere, forti come un manrovescio in pieno volto.

E scusatemi se non sempre uso le virgole, ma non sempre si pensa con le virgole. Anzi penso spesso con i punti interrogativi, ma non li metto forse per arroganza forse per mascherare la mia insicurezza.

Comunque a giorni metterò su il mio nuovo racconto sempre della serie "Uomini che cercano il senso della vita" (senza trovarlo ovviamente, o rendendosi conto di cosa voglia dire "trovare"). Il titolo è La differenza.

Lascio con una frase che ho letto vicino alla porta del cesso di un pub a Cuneo, non firmata:

Un cane abbaia sue idee, smette quando impongo le mie.